Grazie al successo di Parasite (2019), neo vincitore di 4 premi Oscar, arriva per la prima volta nelle sale italiane uno dei migliori film diretti da Bong Joon-ho: Memories of Murder (2003). Il secondo lungometraggio del regista sudcoreano, dopo il buon esordio con Barking Dogs Never Bite (2000), si ispira ad un’opera teatrale di Kim Kwang-rim per raccontare – con una grande libertà creativa e in una cornice finzionale – un fatto reale, gli omicidi seriali commessi nella cittadina di Hwaseong tra il 1986 e il 1991. Bong Joon-ho mostra le difficoltà dei poliziotti locali nei loro maldestri tentativi di risolvere il caso in un avvincente crime thriller investigativo capace di coinvolgere lo spettatore e di avvolgerlo nella sua cupa atmosfera di mistero e dramma.
Il cadavere di una giovane donna, uccisa brutalmente, viene ritrovato in un canale di scolo. Purtroppo, è solo la prima delle vittime di uno spietato serial killer. Park Doo-man (Song Kang-ho) e il suo partner Cho Yong-koo (Kim Roi-ha) sono i due agenti chiamati ad indagare sugli omicidi, ma si dimostrano presto incapaci di gestire un’indagine di questo tipo. L’accusa iniziale mossa verso Baek Kwang-ho (Park No-shik), un ragazzo affetto da una disabilità intellettiva, non è supportata da sospetti e da prove reali ma dalla semplice capacità intuitiva di Park, il quale ritiene di saper individuare il colpevole solo con il potere del suo sguardo. Ai due discutibili agenti verrà affiancato Seo Tae-yoon (Kim Sang-kyung), un giovane ma esperto detective di Seul che cercherà di dare una parvenza di senso alle indagini, con la speranza di individuare e infine di arrestare l’assassino.
Per quanto Memories of Murder sembri, a partire dalle sue premesse, un film pienamente immerso negli stilemi del genere in cui si colloca, in realtà si rende presto evidente come questa adesione sia puramente di facciata. Sebbene la crudezza dell’idea narrativa potrebbe suggerire alcune similitudini con opere affini, come ad esempio Seven (1995) di David Fincher, in realtà la pellicola di Bong Joon-ho si muove in una direzione diversa. Lo stesso Fincher sembra prendere largamente spunto da Memories of Murder nel suo Zodiac (2007), film che si sofferma sugli assassini commessi dal cosiddetto killer dello Zodiaco nella California degli anni ’60.
Nello specifico, Bong Joon-ho decide di non soffermarsi eccessivamente sulla natura perversa e sulle azioni dell’assassino – pochissimo tempo viene dedicato, tra le altre cose, all’esame del suo estremo modus operandi – preferendo invece analizzare il contesto delle indagini nel suo insieme, sviscerando i rapporti che di volta in volta connettono i protagonisti del film e le dinamiche sociali che li conducono ad investigare in una direzione anziché in un’altra. Il contrasto più evidente che emerge in tal senso nel corso di Memories of Murder è quello tra i metodi impacciati e spesso degradanti (legati anche al ricorso alla tortura) adottati da Park e Cho rispetto all’umiltà, alla prontezza e alla sagacia di Seo. L’uomo che viene dalla città – l’uomo “americano” come lo definisce Park – viene presentato come un esempio di virtù, capace di intuire le trame nascoste perseguite dall’assassino seriale, a differenza dei suoi colleghi inetti, dediti invece alla violenza e, in un caso particolare, anche alla scaramanzia rituale.
È proprio qui che si inserisce – in netta continuità con il già citato Parasite, ma anche con The Host (2006) e Snowpiercer (2013) – il commento critico di Bong Joon-ho: e se il tanto apprezzato modello virtuoso occidentale fosse esso stesso soggetto a corruzione? E ancora, come possiamo posizionare efficacemente il nostro sguardo in un orizzonte segnico incerto, imprevedibile, difficilmente riconducibile ad un intero ben definito? L’enigma della visione, che il cinema indaga sin dalle sue origini, viene rimesso nelle mani – e negli occhi – dello spettatore. Con Memories of Murder, il regista sudcoreano affronta l’antinomia della giustizia, sociale e individuale, in un film dal ritmo serrato capace di mescolare la crudezza del thriller con un umorismo nero, graffiante e grottesco che sembra chiudersi su se stesso, ripiegando da una qualsiasi possibilità di risposta universale ai dilemmi che pone.
Daniele Sacchi