Men di Alex Garland, recensione e analisi

Men

Dopo aver esplorato i territori della serialità con Devs, Alex Garland ritorna alla forma del lungometraggio con il suo terzo film Men. Il regista inglese lascia da parte le sue incursioni tipiche nell’hard sci-fi cerebrale e dalle forti derive metafisiche per gettarsi a capofitto nel filone degli home invasion, muovendosi tra atmosfere grottesche e accenni folk horror surreali senza perdere però di vista la propria cifra stilistica caratteristica. Nonostante il cambio di genere, Garland mantiene in Men il medesimo approccio strutturale di Ex Machina e di Annihilation, prima introducendo gradualmente le coordinate fondamentali del suo discorso per poi affondare in chiusura con un climax estremo che, a tratti, ricorda persino Gozu di Takashi Miike (epurato però dalle sue componenti più tragicomiche).

La trama del film si focalizza su Harper (Jessie Buckley), una giovane vedova che decide di trascorrere un periodo di vacanza di riflessione da sola nella cittadina di Cotson in seguito al suicidio del marito James (Paapa Essiedu). Come nel più classico degli home invasion, Harper scopre presto di essere spiata da una persona che finirà per seguirla e tormentarla sino all’abitazione che ha affittato per la vacanza, di proprietà di un uomo di nome Geoffrey (Rory Kinnear). La noncuranza della polizia circa il problema e l’incontro con alcuni personaggi insoliti nella strana cittadina non potrà che gettare ulteriormente nello sconforto Harper.

Men, uomini: il centro nevralgico dei film di Garland è, in fondo, sempre lo stesso. In questo caso, l’attenzione è direzionata in particolare sul ciclo di controllo, abuso e violenza perpetrato dal genere maschile, il quale sembra non poter essere arrestato. A sottolineare tutto ciò, spicca soprattutto la scelta registica di far interpretare tutti gli uomini della cittadina dallo stesso attore, Rory Kinnear, con l’aiuto del makeup e della CGI, peculiarità che alimenta costantemente il substrato perturbante del film, rimarcando a più riprese una certa inevitabilità onnipervasiva dell’assoggettamento all’alterità maschile dominante.

Messa da parte la Zona tarkovskijana di Annihilation, l’influenza del cinema di Andrej Tarkovskij persiste nei ritmi contemplativi e in alcune scelte estetiche, specialmente nella prima parte del film durante la quale seguiamo Harper esplorare i boschi e i tunnel attorno a Cotson alla ricerca di se stessa. È proprio questa ricerca e la necessità del perseguimento di una pace personale a dimostrarsi vana, specialmente appena Harper si accorge che, nella fuga dal dolore, si è suo malgrado ritrovata al centro di un ulteriore iter della sofferenza, sia interiore sia esteriore.

Così, gli intagli e le sculture di Sheela Na Gig, da inno alla fertilità e da simbolo scaccia-demoni, diventano invece icona ed emblema di un nuovo diktat, in realtà sempre esistente e soggiacente: una fertilità prolifica e puramente maschile che sopravvive cibandosi continuamente di se stessa, ripetendosi ossessivamente in un loop infinito di autocelebrazione e di riduzione dell’Altro al Nulla. Disilluso e provocatorio, il cinema di Alex Garland continua a perlustrare Zone dell’immaginario latenti ma inevitabilmente presenti, ancora in attesa di far esplodere con vigore il suo talento (il collega londinese Jonathan Glazer al terzo film, Under the Skin, ci era riuscito) ma la strada è quella giusta.

Daniele Sacchi