Maya Deren è davvero un caso singolare, più unico che raro, per quanto riguarda la storia del cinema. Regista, scrittrice, poetessa, fotografa: la poliedrica autrice americana è riuscita ad affermare la propria visione artistica in un’epoca – gli anni ’40 e gli anni ’50 – nella quale emergere in quanto donna all’interno dell’industria cinematografica non appariva di certo come un’impresa semplice (un problema che, con le dovute differenze, si ripropone ancora oggi). In aggiunta a ciò, la produzione artistica di Maya Deren è quanto più di distante da Hollywood si possa immaginare. Non è un caso, infatti, che la stessa regista si sia in più occasioni rivolta cinicamente nei confronti dell’industria statunitense, proponendosi come vera e propria pioniera del cinema indipendente e d’avanguardia. Il cortometraggio muto Meshes of the Afternoon (1943), co-diretto con il marito Alexander Hammid e tra le sue opere più interessanti, rappresenta perfettamente la poetica e la visione estetica della Deren.
Da un punto di vista narrativo, il film sembra riprendere in parte le suggestioni surrealiste di Luis Buñuel e di Salvador Dalí – pensiamo ad esempio al celebre L’âge d’or (1930) – nel carattere onirico dell’intreccio, senza tuttavia risultare eccessivamente in debito con i due autori. Infatti, la dimensione del sogno gioca sì un ruolo importante nel corso del film ma gode di una propria componente originale in termini rappresentativi. Nello specifico, la protagonista di Meshes of the Afternoon, indicata semplicemente come “The Woman” nei crediti (“la donna”, interpretata dalla stessa Deren), sogna se stessa mentre interagisce con diversi oggetti, a prima vista insignificanti. Allo stesso tempo, nei suoi sogni ricorre il manifestarsi di una figura incappucciata con uno specchio al posto del viso, entità la cui identità sembrerebbe apparentemente coincidere con quella di un uomo (interpretato invece da Hammid).
La componente onirica di Meshes of the Afternoon sembra essere tesa verso una precisa riflessione introspettiva e identitaria, evitando dunque di darsi come un ulteriore tentativo cinematografico di creare una corrispondenza tra gli stratagemmi e i meccanismi filmici con i percorsi e le vie del subconscio. Anzi, il subconscio si muove secondo Deren come fonte interpretativa di incidenti casuali, rielaborati nella forma di esperienze emotive critiche (cfr.). In Meshes of the Afternoon seguiamo il processo di scoperta da parte della protagonista delle sue paure e ansie più recondite, in una commistione tra reale e immaginario che non lascia mai trasparire quando si è nel primo dominio o nel secondo: la perdita di ogni riferimento è totale nel momento in cui l’esperienza onirica si presenta come tale, alterando operativamente la ricezione e l’aspettativa spettatoriale nei confronti del rapporto tra il segno e il referente.
Invece di rappresentare i motivi del tormento psicologico della protagonista, Maya Deren preferisce soffermarsi sulla componente soggettiva, sulla risposta individuale e personale dell’essere umano nei confronti degli episodi che scatenano le sue crisi. Il senso del cinema, infatti, sembrerebbe porsi al di là della mera riproduzione oggettiva degli eventi. Come la stessa Deren racconta in An Anagram of Ideas on Art, Form and Film, nel periodo di produzione di Meshes of the Afternoon la regista riteneva che la funzione del cinema e dell’arte in generale si risolvesse nella creazione di un’esperienza definibile come la messa in scena di una «realtà semipsicologica». In tal senso, Meshes of the Afternoon si dà come un film incredibilmente astratto nella sua forma, un racconto nel quale anche un semplice oggetto può rimandare a verità celate, nascoste e terribili, che tuttavia non necessitano di essere raccontate o spiegate nel dettaglio per manifestare pienamente la loro incredibile forza simbolica.
Daniele Sacchi