Nell’ultimo decennio, Paul Schrader ha riconfigurato la propria poetica cinematografica – negli anni minata da collaborazioni poco fruttifere (The Canyons con Bret Easton Ellis) e da disastri produttivi (Il nemico invisibile, disconosciuto dallo stesso Schrader) – con la sua eccezionale trilogia sulla crisi dell’uomo contemporaneo, composta da First Reformed, Il collezionista di carte e Il maestro giardiniere. Il suo ultimo lavoro, Oh, Canada, presentato in concorso durante l’ultima edizione del Festival di Cannes e ora nelle sale italiane, seppur fuori da questo “filone”, ne costituisce un’appendice fondamentale. Certo, Oh, Canada è un’edificazione che si pone su una base diversa, costruita sulla reunion creativa tra il regista e Richard Gere a 45 anni di distanza da American Gigolò, ma allo stesso tempo si colloca in un orizzonte non tanto dissimile da quello proposto negli ultimi suoi film.
Punto di partenza, infatti, è di nuovo una crisi, una rottura e sfaldamento di un’individualità maschile, quella del documentarista Leonard Fife (interpretato da Gere). Consapevole di non aver più molto da vivere a causa di una malattia terminale, Leonard decide di concedere un’intervista a una coppia di registi nonché suoi ex studenti, Malcolm (Michael Imperioli) e Diana (Victoria Hill), i quali desiderano realizzare un documentario retrospettivo sulla sua carriera. La scelta di Leonard, in realtà, deriva perlopiù dalla sua volontà di mettersi a nudo di fronte alla moglie Emma (Uma Thurman), in particolar modo nel rivivere la sua turbolenta gioventù, raccontata attraverso numerosi flashback dove è Jacob Elordi ad ergersi come contraltare speculare di Gere nell’interpretare Leonard.
L’esplorazione del genio documentaristico lascia presto spazio ad un puro racconto di vita, un intreccio di ricordi e di impressioni non sempre lucido, viziato dalla “inaffidabilità” costitutiva di un io narrante gravemente segnato dalla malattia. A mutare, rispetto alla trilogia della crisi sopracitata, è il tono complessivo dell’operazione. Paul Schrader, che con Oh, Canada adatta per la seconda volta un romanzo del compianto Russell Banks a quasi trent’anni da Affliction, mette da parte il cinismo, gli urti e i sussulti dei suoi lavori più recenti per abbracciare uno sguardo più introspettivo e intimista. Schrader gioca anche con la non linearità del racconto che, per quanto non risulti sempre a fuoco nella scelta sul “cosa” rappresentare, riesce comunque a pungere sul “come”, in uno stream of consciousness frastagliato che opera per contrasti visivi (una banale ma efficace alternanza tra sequenze in b/n e a colori) e che mette in questione il concetto di verosimile senza mai apparire come un vuoto esercizio di stile.
Oh, Canada, in questo, riesce a ricondurre sempre a una parvenza di senso, concentrando il proprio sforzo eidetico verso l’integrità del suo protagonista. Non un’integrità morale, attenzione, ma un’integrità puramente amorale, che prescinde e rifugge da ogni giudizio di sorta. Un’integrità impossibile, da un certo punto di vista, perché non totalizzabile (è una, sì, ma è anche molteplice nel suo frammentarsi) né ricostituibile. E che si pone un unico reale obiettivo: non l’analisi di una visione estetica – i film di Leonard vengono appena accennati – ma di uno sguardo umano. Fallibile, forse falso, ma verosimile. Soprattutto agli occhi della moglie di Leonard, Emma, verso la quale questo sguardo è interamente rivolto.
Daniele Sacchi