Wim Wenders, durante la sua “parentesi americana”, si è dimostrato essere un cineasta pienamente in grado di raccontare gli Stati Uniti con uno sguardo preciso, sottile e fortemente autoriale. Ne è un esempio Hammett (1982), neonoir incentrato sulla figura di Dashiell Hammett (il fondatore del genere hardboiled), ma anche il documentario Lampi sull’acqua (1980) – una testimonianza struggente degli ultimi giorni di vita del grande regista americano Nicholas Ray – e il particolarissimo Lo stato delle cose (1982), opera dai connotati fortemente metacinematografici che gli è valsa il Leone d’oro alla Mostra del cinema di Venezia. Ma è soprattutto con Paris, Texas (1984), Palma d’oro al Festival di Cannes, che il regista tedesco raggiunge il suo apice in questo peculiare periodo della sua produzione cinematografica, realizzando una delle opere più rappresentative e importanti della sua carriera, poco prima, tra l’altro, di tornare in patria e concepire il meraviglioso Il cielo sopra Berlino (1987).
Paris, Texas, come per gli altri film menzionati, racconta una parte di America, e lo fa con un taglio incredibilmente particolare, delineandosi come un road movie atipico. Le prime sequenze del film ci introducono il singolare protagonista, Travis (interpretato da Harry Dean Stanton), un uomo che vagabonda per il deserto sul confine tra Stati Uniti e Messico. Stremato e disidratato, Travis collassa in una stazione di servizio e, grazie all’intervento di un medico che gli presta soccorso, riesce in seguito a riunirsi con il fratello Walt (Dean Stockwell), che lascia la sua residenza losangelina per andare a recuperarlo. Travis, scomparso da 4 anni al momento del suo ritrovamento, è affetto da mutismo, ma riesce a comunicare al fratello di essere in possesso di un terreno a Paris, capoluogo della contea di Lamar in Texas. Una volta raggiunta l’abitazione di Walt, Travis avrà anche modo di riunirsi con il figlio, Hunter, e di cercare progressivamente di riconnettere con la realtà.
“Riconnettere” sembra proprio essere il verbo migliore per chiarire l’orizzonte simbolico sul quale si muove il film di Wim Wenders. Da un lato, infatti, abbiamo il desiderio innato e inspiegabile di Travis di raggiungere Paris, il luogo dove i suoi genitori lo hanno concepito, una spinta metaforica nel voler rientrare in controllo di se stesso, della propria identità, ma anche del proprio passato, di ciò che si era e di ciò che si vorrebbe tornare ad essere. Dall’altro lato, Travis non ha più contatti con la sua famiglia da tempo, e il figlio Hunter in un primo momento non sembra nemmeno riconoscerlo come padre. Il bambino percepisce come suoi “veri” genitori Walt e la moglie Anne (Aurore Clément), le persone che effettivamente lo hanno cresciuto, in quanto Travis è stato lontano da Hunter per più della metà della sua vita.
Paris, Texas, sceneggiato da Sam Shepard (autore vincitore del Premio Pulitzer nel 1979 per il suo dramma teatrale Il bambino sepolto), è in realtà una vera e propria collaborazione operativa tra lo sceneggiatore e Wenders, che nella seconda metà del film si trovano ad improvvisare buona parte del girato. E il film, infatti, è una “scoperta” continua. Dopo aver tratteggiato la struttura base del racconto e le motivazioni dei suoi personaggi, Wenders si concentra interamente sull’imprevedibile viaggio di Travis: un viaggio introspettivo, di espiazione e, appunto, di riconnessione con se stesso, ma anche un vero e proprio road trip con il figlio alla ricerca della madre, Jane (Nastassja Kinski), per cercare di colmare un vuoto non solo esistenziale ma anche fattuale per quanto riguarda soprattutto Hunter, ripercorrendo così i confini del passato e cercando di sistemare ciò che, a prima vista, sembrerebbe apparire come irreparabile.
Daniele Sacchi