Queer di Luca Guadagnino, la recensione

Queer

Ormai habitué della kermesse cinematografica annuale diretta da Alberto Barbera, Luca Guadagnino porta in concorso all’81esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia il suo ultimo lavoro, Queer. Scritto da Justin Kuritzkes – lo sceneggiatore di Challengers, film d’apertura della scorsa edizione saltato all’ultimo momento a causa dello sciopero degli attori statunitensi – e ispirato all’omonimo romanzo di William S. Burroughs, Queer si lascia guidare dalla sua materia di riferimento adoperandola come un canovaccio che ne stabilisce gli orizzonti espressivi.

Come nel testo di Burroughs, controverso autore americano conosciuto soprattutto per Junkie (Queer ne rappresenta il sequel) e per Il pasto nudo (portato sullo schermo nel 1991 da David Cronenberg), il film pone lo spettatore a stretto contatto con il girovagare ondivago del suo protagonista, William Lee. Interpretato da Daniel Craig in quella che probabilmente è la miglior performance della sua carriera, Lee è un effettivo alter ego di Burroughs, un tossicodipendente che si sollazza nell’abuso di alcolici e di sostanze, oltre a dare pieno sfogo alla sua sessualità. In particolare, William Lee – che per un breve periodo è stato anche lo pseudonimo letterario dello stesso Burroughs – frequenta i bar di Città del Messico alla costante ricerca di rapporti omosessuali occasionali, almeno sino a quando incontra il giovane Eugene Allerton (Drew Starkey), un ex soldato statunitense per il quale sviluppa una vera e propria ossessione.

Tenendo in considerazione queste premesse e quindi la natura complessiva dell’operazione, riproporre la passione burrascosa di Chiamami col tuo nome o le ossessioni carnali di Bones and All non avrebbe avuto alcun senso. E infatti, a differenza di questi due grandi film, Queer è esattamente quello che ci si potrebbe aspettare conoscendo il romanzo di Burroughs, ossia un pallido riflesso di un racconto non riuscito. Diviso in tre capitoli e un epilogo, Queer fa addirittura un passo ulteriore, cercando di “completare” l’opera di Burroughs immaginando un ultimo atto nelle foreste amazzoniche, carico (verrebbe quasi da dire ebbro) di un vacuo onirismo ipnotico.

Se il romanzo dell’autore americano poteva almeno vantare un certo gusto per la prosa sincopata, tagliente e a tratti delirante, lo stesso non può dirsi per il film di Guadagnino, il quale si tiene in piedi solamente grazie al suo appassionante primo capitolo e alla prova attoriale di Craig. Al contrario, il collega Starkey appare come fin troppo algido e incapace di infondere personalità al suo personaggio, penalizzato da uno script che limita Allerton a mera statuina e oggetto del desiderio. Raggiunto fin troppo presto il climax della relazione tra i due protagonisti, Queer si trasforma in una missione in Sud America alla ricerca dello yage, lo psichedelico ayahuasca che si dice conferisca proprietà telepatiche a chi lo assume. È in questo passaggio che il film, piano piano, perde di vista il proprio focus e il rapporto tra Lee e Allerton si fa sempre meno interessante, spogliato da tutto il suo vigore carnale.

Nell’ultima parte, Queer penetra direttamente nel grottesco (più o meno consapevole), con il concetto stesso di queerness che finisce per essere «disincarnato» in una stratificata parabola allucinatoria che, forse, arriva troppo tardi. Tra i presenti all’appello, oltre a Craig, troviamo Trent Reznor e Atticus Ross, mentre l’uso anacronistico di brani di altre epoche – dai Nirvana ai Verdena – appare come una scelta comunque apprezzabile. Nell’eccesso di “materia filmica” che chiude il film, tra impressioni lisergiche e atmosfere derealizzate (pensiamo a l’Orfeo di Jean Cocteau, citato esplicitamente nel corso del film), Queer ha perlomeno il pregio di riuscire a mettere in crisi lo sguardo spettatoriale.

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Daniele Sacchi