Rebecca – La prima moglie è una storia di fantasmi, di echi irrimediabilmente presenti, di cose perdute ma mai dimenticate. Il debutto hollywoodiano di Alfred Hitchcock è un adattamento dal bestseller omonimo di Daphne du Maurier, una riproposizione fedele che riesce a tradurre perfettamente su schermo le atmosfere gotiche del romanzo di riferimento. L’intreccio fantasmatico e spettrale di Rebecca – La prima moglie si sofferma nello specifico sull’aristocratico Maxim de Winter (Laurence Olivier), vedovo della moglie Rebecca, e sulla sua nuova storia d’amore con una giovane ragazza (Joan Fontaine), che impareremo a conoscere solamente attraverso l’appellativo di “seconda” signora de Winter.
In tal senso, Rebecca – La prima moglie è prima di ogni altra cosa un film che individua nella seconda signora de Winter una figura a suo modo appiattita, impossibilitata nell’affermare la propria identità dinanzi alle forze invisibili e fantasmatiche della defunta Rebecca, le quali ancora infestano i ricordi e le esperienze di chi le è sopravvissuta. E come ogni film di Hitchcock che si rispetti – pensiamo anche solo al successivo Il sospetto, in cui i pericoli del dubbio e della diffidenza finiranno per alterare sensibilmente le dinamiche di una coppia – sarà necessario un radicale cambiamento di prospettiva per poter finalmente permettere alla seconda signora de Winter un’effettiva autolegittimazione.
Certo, il percorso di affermazione identitaria perseguito dalla giovane ragazza non è semplice, specialmente in un contesto in cui le viene costantemente ricordato non solo di non essere come Rebecca, ma persino di non poter nemmeno ambire ad essere alla sua altezza. Nel fittizio maniero goticheggiante di Manderley, infatti, la seconda signora de Winter troverà anche una vera e propria antagonista, ossia l’ambigua e misteriosa figura della signora Danvers, la governante interpretata da Judith Anderson. Hitchcock esplora il legame che univa Rebecca con la signora Danvers soprattutto visivamente, sottolineando in particolar modo la preservazione che la governante ha cercato di attuare nei confronti della camera da letto e degli oggetti personali di Rebecca, scavando così a fondo nell’estrema morbosità del personaggio.
Grazie a dettagli di questo tipo, Rebecca – La prima moglie riesce a brillare sia come un thriller dal marcato gusto hitchcockiano, sia come un inquietante affresco sulle ossessioni e sulle derive dell’umanità, ricercate a dovere anche nell’analisi del rapporto che legava Maxim e Rebecca, non immediatamente comprensibile allo sguardo spettatoriale. Di nuovo, Rebecca – La prima moglie – come anche il titolo suggerisce – parla continuamente di chi non è presente e del concetto stesso dell’assenza, di un vuoto che però riesce, a modo suo, a comunicare. Sebbene sia deceduta, Rebecca persiste: nel materiale e nell’immateriale, nella concretezza degli oggetti che ha lasciato e nell’astrattezza dei ricordi che la riguardano, oltre che nelle emozioni (profondamente diverse) suscitate in Maxim e nella signora Danvers nel momento della sua scomparsa.
Nonostante i tratti più ansiogeni del cinema di Alfred Hitchcock non siano qui predominanti (il film, tra le altre cose, deve molto al fatto di essere una produzione di David O. Selznick), la materia centrale dell’intrigo restituisce comunque sensazioni irrequiete, come nella sequenza del ballo – durante la quale, a causa delle macchinazioni della signora Danvers, le figure della prima e della seconda signora de Winter finiscono per sovrapporsi in un transfert non espressamente ricercato – e nell’infuocata sequenza conclusiva. Se da un lato Rebecca – La prima moglie vive di un certo romanticismo che permea l’intera opera alla sua base, dall’altro lato non può che essere un film provocatorio e angosciante, in grado soprattutto di raccontare e di esplorare a fondo le inquietudini, le gelosie e i traumi che riguardano da vicino l’essere umano.
Daniele Sacchi