«Un ritratto intimo delle donne che mi hanno cresciuto, un riconoscimento dell’amore come mistero che trascende spazio, memoria e tempo». Così, Alfonso Cuarón ha descritto la sua ultima opera vincitrice del Leone d’oro alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, Roma (2018), un film che si allontana dall’atmosfera strettamente fantascientifica dei suoi precedenti successi I figli degli uomini (2006) e Gravity (2013) per ambire a rappresentare invece una dimensione molto più personale per l’autore stesso. Cuarón infatti prende direttamente spunto da alcune vicende della sua infanzia per organizzare l’intreccio del proprio film, ricorrendo al bianco e nero e descrivendo allo stesso tempo il contesto sociale di Città del Messico tra gli anni ’60 e gli anni ’70, soffermandosi in particolar modo sul quartiere che dà il titolo alla pellicola.
Più precisamente, Roma attua una vera e propria rilettura dell’infanzia di Cuarón adottando un punto di vista singolare che riesce a porsi sia all’interno sia all’esterno delle dinamiche vigenti nella famiglia medio borghese al centro delle vicende del film, quello della domestica Cleo (l’esordiente Yalitza Aparicio). Attraverso Cleo, lo spettatore diventa così testimone passivo della grande mole di faccende che la domestica si trova a dover svolgere quotidianamente per conto della famiglia per la quale lavora, osservando progressivamente l’evidente contrasto identitario sussistente tra gli indigeni ormai ai margini della società e gli immigrati caucasici e altolocati che si trovano invece ad occupare le posizioni sociali più alte.
Sebbene le premesse potrebbero suggerirlo, Roma in realtà non vuole presentarsi come un film dai connotati politici ben definiti o come una risemantizzazione del passato nel tentativo di reinterpretare il presente in una possibile operazione di decontestualizzazione temporale. Bensì, Cuarón cristallizza la temporalità dell’epoca che rappresenta per ricercare attraverso il particolare di raggiungere l’universale: Roma racconta una situazione specifica in un contesto ben delineato, ma allo stesso tempo vuole raggiungere tutti. E, sorprendentemente, ci riesce. Nel mostrare l’insorgere e l’affermarsi delle differenze, Cuarón riesce a sottolineare con una maggiore enfasi le linee di continuità e le connessioni nella diversità. In questo, Roma si erge come uno splendido affresco dell’umanità nella sua concezione più radicale: come direbbe Clifford Geertz, l’uomo come un animale incompleto.
La risposta all’incompletezza, per Cuarón, risiede in quei «legami incomprensibili che fluiscono tra noi nello stesso momento in luoghi diversi». Punti di contatto che trascendono lo spazio e il tempo per, infine, culminare in un’idea romantica di amore e di affetto come soluzione ultima alla natura caotica dell’essere umano. La storia di Cleo assume così i tratti di una parabola sull’importanza della vicinanza reciproca, e non è un caso che a darsi come veicolo di tale concetto sia una figura femminile. In Roma infatti si dà come evidente il contrasto tra la società patriarcale che non può che darsi come fonte di forza distruttiva e di annichilazione, per il nucleo famigliare per quanto riguarda la famiglia protagonista del film o per la società stessa nel caso di una figura come quella di Fermín (Jorge Antonio Guerrero), e tra l’asservito e il subordinato. Cleo, così come la collega Adela (Nancy García) o la madre della famiglia Sofia (Marina de Tavira), diventano in tal senso delle figure archetipali di misericordia e compassione che necessitano di essere ricordate nell’esame critico della storia dell’umanità.
Stilisticamente, Roma è un esempio perfetto di cinema che si erge ad arte. Cuarón, che per l’occasione ha svolto oltre al ruolo di regista anche quello di sceneggiatore, direttore della fotografia e montatore, ricerca un tipo di messa in scena che mira espressamente a rappresentare attraverso l’immagine cinematografica la cifra oggettiva del suo intreccio, ribadendo anche visivamente l’intenzione di voler proporre un racconto che superi la soggettività dell’evento narrato nella ricerca dell’assoluto. Il risultato è un film che si sofferma sul dettaglio per trascenderlo apertamente attraverso una precisa intenzione contemplativa, a partire dai piani sequenza che ci mostrano le attività quotidiane di Cleo (insieme agli eventi culmine del film) sino ad arrivare alle lunghe carrellate che ci svelano i setting maggiormente rilevanti per la trama.
Con Roma insomma, Alfonso Cuarón ci regala la pellicola più bella dell’anno che sta per concludersi, con annesso il valore aggiunto dato dalla scelta di Netflix di distribuire il film, permettendo così a tutti di poter visionare uno dei film migliori del nostro tempo.
Daniele Sacchi