Sogni (1990), una delle ultime pellicole donataci da Akira Kurosawa pochi anni prima della sua scomparsa, è un’opera estremamente particolare, un vero e proprio episodio singolare nella vastissima produzione filmografica del grande maestro giapponese. Il film, che si allontana sensibilmente dallo stile di un capolavoro come Vivere (1952), per citarne uno, o dai jidaigeki che hanno reso celebre Kurosawa e che lo hanno consegnato alla storia della settima arte, non fu particolarmente apprezzato dal pubblico e dalla critica all’epoca della sua uscita, forse proprio per il suo non essere in linea con quanto ci si poteva aspettare da un suo lavoro.
Il netto distacco rispetto alle opere del passato è infatti evidente sin dall’idea stessa che risiede dietro alla pellicola, ossia il mettere in scena alcuni dei sogni ricorrenti del regista. Con il suo film, Kurosawa procede al di là di se stesso e della propria poetica, mostrandoci su schermo la sua persona nei termini delle sue visioni oniriche, riuscendo allo stesso tempo a produrre un’opera densa di un forte simbolismo e caratterizzata da una grande vena immaginifica. Con i suoi 8 episodi, Sogni non solo ci rende partecipi dell’immaginario più intimo e personale del regista giapponese, il cui io narrante è tra l’altro impersonato da uno degli attori protagonisti di Ran (1985), Akira Terao, ma riesce anche a mettere in questione alcuni dei temi fondamentali dell’umanità, soffermandosi soprattutto sul rapporto tra l’uomo e la natura.
In tal senso, Sogni è sì un viaggio nel particolare, in una narrazione frammentata e atemporale (seppur parzialmente autobiografica), ma è anche uno sguardo sull’universale. Quasi volendosi dare un tono profetico, gli episodi Fuji in rosso e Il demone che piange ci mostrano due scenari apocalittici che vedono il nostro pianeta soccombere a causa della stupidità umana. Nel primo, un’eruzione del Monte Fuji raggiunge una centrale nucleare, costruita ottusamente ai suoi piedi e la cui distruzione determina una diffusione incontrollata di sostanze radioattive. Nel secondo, il protagonista percorre una terra desolata e incontra un oni, uno yōkai del folklore giapponese, che è in realtà un uomo mutato in seguito ad un terribile disastro nucleare.
Kurosawa pertanto sembra ammonire l’umanità nei confronti dei pericoli del progresso tecnologico, cercando di far comprendere allo spettatore come la scelta di come sarà il futuro per il nostro pianeta non sia da nessun’altra parte se non nelle nostre mani. Proprio per non voler concludere la sua opera con una visione pessimistica, il segmento intitolato Il villaggio dei mulini ci mostra una sorta di paradisiaco “ritorno alla natura”, rappresentato come il vero telos dell’umanità e teso a sottolineare la possibilità di un avvenire pacifico e felice.
Nel suo insieme, Sogni vuole però essere anche un omaggio all’arte. Nell’episodio Corvi, il protagonista incontra Vincent Van Gogh (interpretato da Martin Scorsese) all’interno dei suoi quadri, interagendo direttamente con le loro immaginarie realtà. Dopo averne perso le tracce, continua a cercarlo spostandosi tra i suoi lavori, sino a quando un colpo di pistola nel Campo di grano con volo di corvi (1890) e l’arrivo improvviso di un treno lo riportano al mondo reale. Il breve episodio, dai toni fortemente surreali, è accompagnato dal Preludio op. 28 n. 15 di Fryderyk Chopin, conosciuto anche come La goccia, e da effetti speciali curati per l’occasione da George Lucas, istituendosi a conti fatti come una vera e propria celebrazione dell’arte come atto creativo in sé: l’arte come apertura verso nuovi orizzonti, nuovi mondi, nuove possibilità interpretative.
Sebbene Sogni sia spesso un’opera che viene facilmente messa da parte quando si parla di Akira Kurosawa, anche in virtù del peso dei grandi capolavori che il regista giapponese ci ha lasciato lungo la sua prolifica carriera, sarebbe bello se venisse ricordata con più frequenza. Perché Sogni non è solamente una raccolta di vignette, ma uno sguardo, per quanto onirico e parziale, sulla figura di Kurosawa stesso, o più precisamente sulla percezione che egli aveva del suo sé. Un sogno a sua volta, che ci dice di più di quello che, in un primo momento, sembrerebbe volerci raccontare.
Daniele Sacchi