Descrivere Solaris (1972) come un film di fantascienza equivarrebbe a limitarne l’analisi alla sua aderenza ai canoni del genere. Il capolavoro di Andrej Tarkovskij, adattamento dell’omonimo romanzo di Stanisław Lem, trascende invece i confini del genere di appartenenza per adeguarsi alla visione estetica e poetica del suo autore, proponendosi pertanto come la naturale prosecuzione di quanto già delineato nei precedenti L’infanzia di Ivan (1962) e Andrej Rublëv (1966).
In Solaris, Tarkovskij narra la storia di Kris Kelvin (interpretato dall’attore lituano Donatas Banionis), uno psicologo inviato a esaminare lo stato mentale dell’equipaggio di una stazione spaziale orbitante attorno al pianeta che dà il titolo al film. Il vasto oceano che ricopre la superficie di Solaris è in grado di generare, usando come modello i ricordi delle persone presenti sulla stazione, quelle che inizialmente sembrano apparire come delle allucinazioni, mostrando dunque una certa capacità intellettiva nel suo interagire con l’ambiente che lo circonda nel tentativo di stabilire una comunicazione. Kris stesso viene influenzato dalle attività espansive del pianeta, un fatto che diventa evidente quando nella sua cabina si trova di fronte ad un simulacro della moglie deceduta, Hari (Natalya Bondarchuk).
Come d’altronde appariva già evidente nei film precedenti del regista sovietico, l’idea di cinema espressa da Tarkovskij vede nella narrazione un semplice strumento al servizio di qualcosa che si pone, esplicitamente, al di là di essa. Il punto centrale di Solaris non risiede infatti nel proporre l’intreccio come il proprio focus, bensì nell’adoperare la trama per veicolarne il messaggio, che non deriva da essa bensì ne è parte integrante.
Le prime lunghe sequenze mostrano immediatamente come uno degli aspetti centrali del terzo lungometraggio di Tarkovskij sia il rapporto tra l’uomo e la natura, evidenziato non solo dalle riprese che indugiano nell’inquadrare l’ambiente attorno a Kris quando ancora è sulla Terra, ma anche nel confronto tra lo psicologo e il personaggio di Henri Berton (Vladislav Dvorzhetsky). Quest’ultimo, ospite del padre del protagonista presso la sua abitazione, mostra a Kris prima della sua partenza un nastro che riporta la sua testimonianza nei confronti delle peculiarità del pianeta. Il suo rapporto non viene preso sul serio né dalla commissione che doveva valutarlo né da Kris: l’esigenza euristica, la necessità di sottomettere l’ignoto alla sete di conoscenza, non può essere ostacolata da dati confusi o contraddittori. L’idea stessa che attorno allo studio di Solaris vi siano un insieme di discipline conosciute con il nome di “solaristica” rimarca ulteriormente questo punto, evidenziando satiricamente una tendenza che vede l’applicazione ossessiva del principio razionale a tutto ciò che può essere esaminato, e dunque sottomesso alla volontà umana. Secondo Berton, «la conoscenza è autentica solo quando è sostenuta dalla morale», ma la realtà, sottolineata dalle parole di Kris, è un’altra: «è l’uomo a rendere immorale la scienza».
A sconvolgere la predisposizione mentale del protagonista di Solaris subentrerà il suo incontro, sulla stazione spaziale, con la copia di sua moglie generata dal pianeta. Hari tuttavia non è effettivamente la donna con cui Kris ha condiviso parte della sua vita, bensì è un prodotto dei suoi ricordi. La reazione iniziale per il protagonista è l’incapacità di comprendere: la sottomissione al principio razionale non può darsi come una realtà effettiva di fronte ad un fatto straordinario come quello di cui è appena stato testimone. Kris convince dunque Hari a salire su un razzo, inviandola nello spazio e liberandosi dell’impossibile, dell’inspiegabile, dell’irrazionale. Tuttavia, l’irrazionale torna a darsi come irrimediabilmente presente durante la notte: una nuova copia di Hari si è materializzata, ed è, perlomeno inizialmente, completamente dipendente dalla figura di Kris.
A questo punto, non bisogna compiere l’errore di pensare al cinema tarkovskijano come una forma di espressione di surrealtà. Il ricorso da parte del regista sovietico alla dimensione dell’irrazionale, esaminato nella sua tensione intrinseca con il razionale, non vuole proporsi come una ricerca guidata da quello che André Breton definiva come un automatismo psichico puro il cui unico scopo era il mostrare il reale funzionamento del pensiero. Per Andrej Tarkovskij, esaminare il rapporto tra razionale e irrazionale significa invece svelare l’emergere di una nuova forma di moralità guidata dal «prezzo del progresso» (cfr.).
Nell’individualità specifica di Kris, il prezzo risiede nell’affrontare il dramma del suo passato, ossia il suo ruolo (diretto o indiretto a seconda dell’interpretazione che se ne vuole dare) nella scomparsa della moglie. Hari è ora di fronte a lui nella sua concretezza materiale, ma si tratta della stessa persona? Per Kris, la differenza non è inizialmente considerata, se non quando il ricordo materiale della moglie non diventa per lo psicologo una fonte di espiazione per le colpe che ritiene di avere nei suoi confronti. Allo stesso tempo, Hari perde progressivamente la necessità di sottostare alla dipendenza di Kris, diventando un’entità a sé stante, non più vincolata dalla corporeità che le dà forma e che definisce la sua identità.
A tal proposito, la splendida sequenza nella libreria racchiude nel confronto tra i personaggi del film tutti gli aspetti centrali di Solaris, aspetti che si rendono manifesti esplicitamente nei loro dialoghi e che affermano ulteriormente la necessità da parte di Hari di affermare la propria presenzialità, che passa peraltro dall’incontro con l’arte (come evidenziato dal continuo soffermarsi da parte di Tarkovskij sulle opere di Pieter Bruegel): «io ho una sensibilità come voi, e soffro come voi. Posso già fare a meno di Kris, però io gli voglio bene». Il declino esistenzialista di Hari rappresenta il percorso inverso ed espiatorio dello psicologo, che nella tensione tra razionalità e irrazionalità riesce, in ultima analisi, a riassestare se stesso con una nuova consapevolezza sulla realtà che lo circonda, consapevolezza che deve tuttavia passare anche dal confronto diretto con il suo passato, non solo nella fisicità resa manifesta dal doppio di Hari, ma anche attraverso un percorso di rinascita spirituale che non può che passare dal suo rapporto con la figura materna e, infine, con una splendida citazione al Ritorno del figliol prodigo (1668) di Rembrandt, da quella paterna.
Tarkovskij rappresenta così la necessità, nel momento in cui lo sviluppo tecnologico raggiunge una dimensione preponderante all’interno di ogni era umana, di ridefinire l’assetto morale a partire da una dispersione valoriale che lui stesso definisce come una forma di «entropia spirituale» (cfr.). Solaris è dunque un film complesso e stratificato che richiede allo spettatore una grande mole di tempo non solo per la lunghezza del suo runtime, ma anche per essere elaborato e compreso. Tuttavia, il tempo richiesto da Tarkovskij non è rubato: Solaris è una vera e propria esperienza cinematografica che si muove oltre l’orizzonte dello schermo e della storia, una pietra miliare che non può essere ignorata nell’esame complessivo della settima arte.
Daniele Sacchi