Stranger Eyes di Yeo Siew Hua, la recensione del film

Stranger Eyes

Tra Alfred Hitchcock, Tsai Ming-liang e gli echi hanekiani di Caché, Stranger Eyes di Yeo Siew Hua rientra tra i film più interessanti presentati in concorso all’81esima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Il regista singaporiano porta in scena un’analisi dello sguardo contemporaneo attuale e sul pezzo che cerca di trovare una risposta all’enigma della visione nella società dell’ipercontrollo. Al centro di questo sforzo euristico, troviamo una giovane coppia, Junyang (Wu Chien-ho) e Peijing (Anicca Panna). I due sono alla ricerca della figlia scomparsa – probabilmente rapita in un momento di disattenzione di Junyang – quando iniziano a ricevere presso la propria abitazione alcune riprese video relative al loro vissuto quotidiano.

Oltre a ciò, Stranger Eyes si occupa di approfondire anche il punto di vista del voyeur che osserva la coppia, il vicino di casa Lao Wu (interpretato dal leggendario Lee Kang-sheng). In tal senso, Yeo Siew Hua attua un vero e proprio pedinamento dello sguardo, coinvolgendo lo stesso spettatore. Seguiamo Junyang, ad esempio, mentre segue una madre con un passeggino, convinto di aver ritrovato la figlia. Seguiamo lo stesso Lao Wu, mentre segue Junyang a sua volta nel suo peregrinare errante. Seguiamo le dirette su Twitch di Peijing, le conversazioni telefoniche con il suo stalker, nonché le indagini della polizia attraverso lo sguardo “oggettivo” delle videocamere di sorveglianza. Seguiamo l’atto stesso di seguire, in una perenne ciclicità voyeuristica che abbraccia l’osservante e l’osservato, invertendone costantemente i ruoli e le prospettive.

Yeo Siew Hua, lo capiamo presto, non è interessato alle convenzioni di genere. Il regista, che ha già vinto nel 2018 il Pardo d’oro a Locarno con l’ambiguo e misterioso (e non riuscito fino in fondo) A Land Imagined, non penetra mai davvero nei territori del thriller (pur citando La finestra sul cortile), il quale si sarebbe ben sposato con l’idea narrativa del film. La sua attenzione è maggiormente incentrata a sottoporre ad oggettificazione il modo in cui guardiamo alle cose e alle persone, portandoci a riflettere sui nostri gradi di conoscenza dell’Altro. Possiamo davvero incontrare l’alterità attraverso i limiti della nostra visione? O c’è un tessuto nascosto, rimosso, che è meglio che resti tale, oscurato al nostro vedere?

In tutto questo, a saltare realmente sono le coordinate di ogni possibile spazio privato. Il regime del visibile coinvolge tutti, dal singolo alla collettività, una particolarità acuita sotto determinate condizioni politico-sociali (pensiamo alla Cina). Nella società della videosorveglianza, il concetto di privacy svanisce, sia nel piccolo, come nel vicino di casa che conosce la nostra routine quotidiana, sia nel macro, come nel caso di uno Stato che monitora e spia i suoi cittadini. Yeo Siew Hua si muove dunque tra differenti temporalità, da una ripresa video ad un’altra, dalla soggettiva di un binocolo che osserva negli appartamenti degli altri alla ripresa “imparziale” di una videocamera che registra il passaggio di ogni persona, ogni volto, ogni movimento. E in questo processo, che è sia attivo sia passivo, si istituisce la più grande crisi di tutte: la frammentazione dei rapporti e l’incapacità di reinterfacciarsi con l’Altro, in un mondo segmentato dall’impossibilità di attribuire un orizzonte di senso al proprio sguardo.

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Daniele Sacchi