Stray Dogs (2013) è forse il punto più alto raggiunto da Tsai Ming-liang nel corso della sua carriera, uno degli esempi migliori che ci permettono di comprendere al meglio la sua poetica ed estetica cinematografica. Il maestro taiwanese dello slow cinema concentra infatti nel film intuizioni, temi e percorsi a lui più cari, portando su schermo l’essenza fondamentale della sua autorialità mentre, allo stesso tempo, cerca di ricondurre la settima arte alla sua struttura più semplice e minimale. Stray Dogs cristallizza e diluisce in maniera estrema la propria temporalità e spazialità, sfidando apertamente lo spettatore nella sua relazione con il prodotto artistico e portando, così, a compimento un discorso portato avanti sin da film come Vive l’amour (1994) o Il fiume (1997), in quello che, prima di Days (2020), sarebbe dovuto essere il suo ultimo lungometraggio tradizionale.
Come protagonista troviamo immancabilmente Lee Kang-sheng, nel ruolo di un padre di una famiglia di senzatetto a Taipei. Insieme ai suoi due figli, un bambino e una bambina, l’uomo cerca di sopravvivere giorno dopo giorno in una metropoli fredda e desolata, guadagnando quel poco che gli basta per andare avanti trascorrendo le sue giornate tenendo in mano un cartellone pubblicitario per strada. I due figli, invece, ingannano l’attesa del ritorno del padre vagando per le strade della città semideserta, girando per negozi e supermercati, per poi ricongiungersi con l’uomo e passare la notte in edifici abbandonati. Presto, una donna – interpretata da tre attrici differenti – si unirà a loro, ricostruendo una sorta di nucleo famigliare all’interno, però, di un orizzonte di vita apatico, frammentario e distante.
In uno scenario quasi distopico ma terribilmente reale, dove la vuotezza della metropoli non può che rappresentare simbolicamente l’assenza di contatto con l’alterità nell’angosciante vacuità metafisica della contemporaneità, Tsai Ming-liang organizza con i suoi lunghissimi longtake un racconto che pone al suo centro proprio il tema della disconnessione e la difficoltà nella definizione del proprio ruolo nel mondo. Stray Dogs è, quasi paradossalmente, un racconto antinarrativo, che non può raccontare nulla perché non è rimasto più nulla da raccontare. La frammentazione è assoluta e mostrata in un contesto che, a tratti, sembra quasi riempirsi di tinte oniriche, come se la parcellizzazione della realtà fosse talmente onnipervasiva da non determinarla più come chiaramente tangibile.
In tutto ciò, il vero e proprio trascorrere del tempo viene annullato anche attraverso una non consequenzialità del montaggio che amplifica la distanza iperbolica tra i personaggi, creando nuove fratture all’interno di qualcosa che è già decostruito alla sua base. In particolar modo, a spiccare in Stray Dogs sono una serie di sequenze in cui vediamo i protagonisti del film contemplare il murale di un paesaggio all’interno di un edificio degradato, quasi come a voler proporre un tentativo di connessione identificativa con lo stesso spettatore che si trova nell’atto di visionare l’opera. Il referente reale salta per lasciar spazio ad un orizzonte simbolico imperturbabile, esattamente come accade anche nell’enigmatica sequenza centrale dell’opera in cui il protagonista si trova a confrontarsi emotivamente con un cavolo antropomorfo, per poi divorarlo selvaggiamente. Contemplazione, attitudine slow, performance artistica: in breve, la summa della proposta cinematografica di Tsai Ming-liang.
Daniele Sacchi