1977. Andrzej Żuławski aveva quasi terminato le riprese di Sul globo d’argento, adattamento della Trilogia Lunare del prozio Jerzy Żuławski, quando il governo polacco decise di bloccare la realizzazione del film. Set, costumi e oggetti di scena furono distrutti, ma fortunatamente il girato venne salvato. A quanto sembra, le autorità polacche ritennero che il sottotesto politico dell’opera, inquadrabile nella lotta tra i due popoli rappresentati in essa, fosse troppo marcato e che potesse richiamare i rapporti contrastanti tra la Polonia e i domini totalitaristi con i quali lo Stato si era trovato a fare i conti nel corso della sua storia, dalla Germania nazista all’Unione Sovietica di Stalin. Non sentendo il bisogno di controversie in tal senso, la produzione del film fu bloccata.
Nel 1988 tuttavia, Sul globo d’argento venne rilasciato così com’era stato realizzato, con in aggiunta degli inserti, narrati in voiceover da Żuławski stesso, volti a corroborare la trama del film con le scene mancanti. L’opera pertanto, già estremamente complessa per conto suo, muta continuamente la propria conformazione stilistica, passando frequentemente dalla desolazione distopica e dalla tenebrosità dei suoi paesaggi alla nostra realtà, per raccontarci ciò che manca: scenari moderni nei quali, in chiusura, possiamo individuare anche il regista stesso, in una sequenza metacinematografica che ci presenta per via diretta i fatti che hanno condotto alla censura del film.
In termini narrativi, Sul globo d’argento può essere suddiviso in due atti ben distinti. Nella prima parte, Żuławski ci mostra la genesi di un vero e proprio mito fondatore di una civiltà. Tre astronauti di nome Marta, Piotr e Jerzy sopravvivono allo schianto della loro navicella su un pianeta sconosciuto molto simile alla Terra, apparentemente disabitato e ricco di mari e oceani. Marta è incinta e presto dà alla luce un figlio che sembra possedere la capacità di crescere più rapidamente rispetto al normale. Questa particolarità, in parallelo con la nascita di altri figli avuti da Marta con gli altri due astronauti e poi in seguito dal figlio stesso insieme alle sorelle, determina infine la progressiva nascita di un popolo. Żuławski ci rende testimoni di questo evento adottando uno stile di ripresa dal taglio documentaristico, anticipando di vent’anni l’ascesa del genere del found footage, non esitando a destabilizzare lo sguardo spettatoriale in diversi momenti con movimenti di macchina imprevedibili, dovuti perlopiù all’utilizzo di una body camera legata agli attori stessi.
Se dunque la prima parte del film adotta uno stile soggettivo che ci mostra in prima persona gli eventi sopra citati, nella seconda parte ci troviamo di fronte invece ad uno stile oggettivo che ci racconta in modo imparziale la guerra tra il popolo fondato dagli astronauti e guidato da Marek, un umano giunto sul pianeta dopo aver visionato i filmati realizzati dai colleghi, e gli indigeni del pianeta, degli uomini-uccello dotati di poteri telepatici chiamati Sherns. Marek viene visto dai suoi sottoposti come il Messia, ma presto si troverà a dover fare i conti non solo con gli Sherns, ma anche con quella frazione del suo popolo che invece vorrebbe sovvertire il suo ruolo. Intrappolato in un gioco di potere, Marek è inoltre inconsapevole di come la sua presenza sul pianeta sia stata fortemente voluta dalla moglie per poter continuare sulla Terra la propria relazione adultera con un ufficiale collega del marito.
In tal senso, con Sul globo d’argento Żuławski ci vuole mostrare l’umanità con uno sguardo cinico e nichilista, riducendola ad una specie che cerca costantemente di sottomettere l’altro, finendo inevitabilmente per collassare su se stessa. La parabola ascendente e poi discendente di Marek ci rende conto del suo tormento interiore, in quanto egli stesso percepisce la sua posizione come tesa verso delle dinamiche di potere che non riesce a comprendere pienamente, come i suoi lunghi monologhi filosofici ci dimostrano. In ciò, lo statuto dell’opera di Żuławski sembra più simile al teatro che al cinema. Gli stessi personaggi del film si definiscono attori e sembrano costantemente essere nel mezzo di una performance, come possiamo rilevare nelle loro frequenti danze tribali o nell’inquietante sequenza in cui, in quello che sembra essere un rituale orgiastico, una ragazza con il viso dipinto di rosso chiede a Marek se apprezza il ruolo che sta interpretando.
Nella sua incompletezza fondante, l’opera di Andrzej Żuławski non appare come un progetto vincolato dai suoi limiti bensì risulta come qualcosa che sembra in grado di slegarsi da essi, uscendo paradossalmente arricchita dall’esperienza censoria che voleva minarne le basi. Il suo statuto estetico incerto, tra la distopia metafilosofica che vorrebbe raccontare e il tono asettico e polemico degli interventi del regista, la determinano in ultima analisi come un lavoro che non può essere tralasciato, non solo dagli appassionati di fantascienza, ma da qualsiasi amante della settima arte.
Daniele Sacchi