Dal 14 luglio arriva per la prima volta nelle sale italiane Suzhou River – La donna del fiume, distribuito da Wanted Cinema nella sua versione restaurata in 4K. Il film del 2000 diretto dal regista cinese Lou Ye è un racconto passionale ambientato nella Shanghai contemporanea, un’opera in grado di unire tonalità urbane e romantiche tipiche di un certo cinema hongkonghese con tinte dall’ispirazione più chiaramente hitchcockiana.
Tra Hong Kong Express e La donna che visse due volte, Suzhou River è uno sguardo intimo su una relazione amorosa tra figure ai margini, relitti di una società decadente e abietta alla ricerca di un proprio posto nel mondo. Uno dei protagonisti del film, Mardar (Jia Hongsheng), è un giovane corriere e motociclista con il compito di trasportare pacchi per la città per conto di un contrabbandiere locale. Il boss, inoltre, chiede spesso a Mardar di prendersi cura della figlia Moudan (Zhou Xun), la quale finirà presto per innamorarsi del corriere. La scomparsa di Moudan e l’arrivo in città di una seconda ragazza identica a lei, Meimei, una performer che si veste da sirena e che sostiene di non riconoscere l’uomo, susciterà in Mardar emozioni contrastanti.
Suzhou River è un racconto non lineare, stilisticamente grezzo e sporco ma allo stesso tempo dolcemente intenso, onirico ed evocativo. Il punto di vista iniziale del film è in realtà quello della macchina da presa: attraverso alcune riprese in soggettiva, lo spettatore viene infatti prima introdotto al personaggio di Meimei, compagna di un anonimo videomaker che funge anche da narratore, e solo in un secondo momento sarà proprio quest’ultimo a presentarci il racconto di vita di Mardar.
Il film, in tal senso, gioca continuamente con l’idea di un ribaltamento prospettico, sia nello stile sia nello sviluppo della narrazione. Nel passaggio dalle vicende dell’anonimo protagonista all’esame del rapporto tra Mardar e Moudan, Lou Ye opera uno slittamento formale tra soggettivo e oggettivo che in realtà finisce per mescolare i due orizzonti: l’andamento si fa incerto, la verità si mescola con il fittizio, e lo spettatore, esattamente come i personaggi del film, diventa a sua volta una figura errante e persa.
In una sequenza vediamo Meimei camminare per le strade di Shanghai, la osserviamo dall’alto, di nascosto, muoversi per la città. Come ne La finestra sul cortile, l’ossessione dello sguardo coinvolge interamente anche lo spettatore, trascinandolo lungo il letto del fiume Suzhou alla ricerca – forse vana – di una possibile spiegazione alle frontiere insolcabili del reale. Il fiume stesso si propone come metafora essenziale di questo incedere traballante nel suo pervadere la città (fisicamente) e i suoi cittadini (psicologicamente), riflesso di un quotidiano che è eco di quiete e tumulto, scomparsa e rinascita, ripetizione e smarrimento, vita e morte.
Suzhou River è un classico della sesta generazione del cinema cinese, espressione di autori coraggiosi ed indipendenti, fautori di un cinema spontaneo e di rottura, slegato da invasive dinamiche economico-industriali. Il film di Lou Ye è un affresco malinconico e dolceamaro di una società alla deriva, inevitabilmente sottomessa da instabilità relazionali e crisi depersonalizzanti.
Daniele Sacchi