«Nessuno sa dov’è la Bosnia, chiedi ad un occidentale cos’è successo qui durante la guerra!». Questa frase pronunciata da uno dei personaggi di The Happiest Man in the World è un atto di accusa verso il mondo occidentale e una chiave per comprendere la volontà che muove il cinema di Teona Strugar Mitevska. La regista del premiato Dio è donna e si chiama Petrunya torna a raccontare le lacerazioni interne di un popolo tormentato dal ricordo di una guerra fratricida, in cui il trauma collettivo attanaglia un’intera generazione rendendogli impossibile dimenticare il passato (ne parlava, d’altronde, anche Jasmila Žbanić in Quo vadis, Aida?)
Asja è una donna di Sarajevo di 40 anni. Durante un evento per single in cerca di un partner incontra Zoran, un banchiere suo coetaneo. L’uomo è emaciato, magro e a tratti scosso da tremori alle mani e al corpo, ma soprattutto nasconde un secondo fine: non ha partecipato all’evento in cerca di amore, ma in cerca di perdono. Nel 1996, infatti, era uno dei militanti che durante l’assedio della città ha fatto fuoco sulle case e la sua prima vittima fu proprio la giovane Asja, la quale finì in coma per tre giorni. Il confronto tra i due diventa così un vortice che coinvolge tutti i personaggi in un percorso di superamento collettivo del dolore.
Primo Levi, ne I sommersi e i salvati, analizzava come la condizione della vittima fosse doppiamente dolorosa. La violenza subita non si limita ad agire nel momento in cui viene perpetrato l’atto, essa viene esercitata nuovamente ogni volta che il suo ricordo ritorna, costringendo i perseguitati ad affrontare nuovamente quanto subito. The Happiest Man in the World è, in tal senso, esattamente un film di vittime che si trovano a confrontarsi con una violenza subita, con la regista che invita apertamente lo spettatore a superare la distinzione tra chi ha sparato e chi è stato colpito. Entrambi i protagonisti, e con loro tutti i comprimari, sono tormentati dagli atti di una guerra insensata, che ha influenzato la vita di ogni cittadino bosniaco.
La regista fa un largo uso della macchina a mano e dei piani ravvicinati, con lunghe sequenze statiche di raffronto e dialogo. Lo spettatore è così portato a perdere il senso dello spazio, potendosi concentrare unicamente sul rapporto intimo con (e tra) i personaggi, mentre la storia si dipana dal loro racconto. I piani totali arrivano come delle interruzioni improvvise, principalmente girati con i personaggi isolati, in bagno o in stanze vuote, come a sottolineare il momento di crisi interiore che stanno vivendo.
Citata, raccontata, compianta, la città di Sarajevo diventa una delle protagoniste del racconto, testimone della brutalità subita ed esemplificata dalla scelta di girare l’intero film all’interno di un vecchio hotel jugoslavo. È interessante notare come Strugar Mitevska adotti per la città una soluzione di ripresa che riflette quella adottata per i personaggi, con i campi ravvicinati a dominare per la maggior parte del tempo, così che i totali segnalino i momenti di riflessione. Dopo un rapido establishing shot iniziale, alle spalle del protagonista e in 4:3, la città viene spezzata e presentata attraverso una serie di inquadrature che accompagnano Asja verso il luogo del suo appuntamento. La non-visione dell’identità della protagonista sposta l’attenzione sulle ambientazioni, con immagini di lavori in corso e palazzi crivellati da fori di proiettile. Col proseguire della storia la città torna solo come ricordo dei protagonisti, fino allo splendido time lapse finale del tramonto e del sopraggiungere della notte, un campo lunghissimo che segnala come l’intera città stia attraversando un momento di ripensamento di se stessa.
La via del superamento del dolore è rappresentata dalle nuove generazioni: mentre nel primo piano dell’hotel si svolge il dramma dei reduci di guerra, al piano terra un gruppo di diciottenni ha organizzato una festa in discoteca, una festa il cui ingresso è vietato agli adulti. Ad Asja è concesso di accedere brevemente alla sala solo dopo essersi confrontata con con Zoran, forse arrivando a valutare il perdono proprio grazie a questo momento di spensieratezza condiviso con i ragazzi. Una spensieratezza tipica della gioventù, che diventa motore di speranza, proprio come accadeva con Petrunya e la sua volontà di superare una tradizione radicata in un passato ormai desueto e che non le appartiene più. Il cinema di Teaona Strugar Mitevska non si limita a riflettere sul dolore di un popolo, è un cinema che invece getta un ponte tra le generazioni, un ponte tra i popoli, affinché tutti possano conoscere la storia della Bosnia, per poter superare insieme il trauma di quanto accaduto.
Gianluca Tana