Attenzione! L’articolo contiene spoiler sulla prima stagione di The Last of Us.
Fin dal suo annuncio, quella di The Last of Us (qui la nostra recensione) è stata una delle serie più attese da molti, complice d’altronde l’ampia fanbase dei due videogiochi targati Naughty Dog. Accompagnata dal solito circo di (vane) polemiche che ormai si associa ai grandi prodotti commerciali, la serie approdata su HBO lo scorso 15 gennaio e in simulcast su Sky Italia si è ormai conclusa, permettendoci finalmente di tirare le somme su quella che non è soltanto una “buona serie per essere tratta da un videogioco”, ma uno dei prodotti transmediali più interessanti degli ultimi anni.
HBO decide di puntare sulla qualità del prodotto affidando la sceneggiatura e la direzione di alcuni episodi a due nomi caldi del panorama americano: Craig Mazin, che viene dal successo della miniserie Chernobyl, e Neil Druckmann, co-presidente di Naughty Dog nonché direttore creativo dei videogiochi di The Last of Us. Forte della collaborazione con quest’ultimo, la serie segue le vicende del primo gioco, adattandole fedelmente nei punti nodali, ma prendendosi le libertà necessarie in ottica del cambio di medium. Scompaiono le spore e le sezioni stealth, i combattimenti si riducono, i mostri appaiono ancora più spaventosi e invincibili. In cambio, il focus si sposta maggiormente sui rapporti umani, concedendo maggiore spazio ai comprimari che diventano personaggi molto più complessi e sfaccettati. Probabilmente il cambiamento più grande è quello apportato alla storia di Bill e Frank, che costituisce una vera e propria parentesi narrativa autosufficiente, regalando un terzo episodio dal grande impatto emotivo e da scuola di sceneggiatura.
Il prodotto di Mazin e Druckmann si inserisce in due filoni narrativi che sono temi ricorrenti nella storia del cinema e della produzione culturale occidentale. Da una parte, The Last of Us è la messa in scena di un mondo post-apocalittico in cui un virus ha portato l’umanità al limite dell’estinzione, dall’altra è un racconto di un padre che non è riuscito a proteggere la propria figlia ed è in cerca di redenzione. In quest’opera convergono istanze precedenti che arrivano fino al romanzo di inizio ‘900 La peste scarlatta di Jack London o storie di mentori come Il grinta di John Ford, arrivando fino alle derivazioni contemporanee, La strada di Cormac McCarthy su tutte. The Last of Us è un lavoro consapevole delle sue fonti, in grado però allo stesso tempo di modificarle e di rinnovarle trovando la sua specifica originalità.
Joel è l’ennesima testimonianza di quella che Lacan ha definito “il tramonto della figura paterna” nella contemporaneità. È un padre che ha fallito come tale, che non è stato in grado di tramandare alla figlia Sarah le sue conoscenze, che non è stato in grado di difenderla. Il suo ruolo di protettore del nucleo familiare patriarcale viene minato anche dalla morte della compagna Tess. Da questo punto di vista, il personaggio si allinea con molti protagonisti simili, dal padre de La strada al Logan di Logan – The Wolverine, passando per il Jepperd di Sweet Tooth.
Proprio giocando con questo archetipo, The Last of Us apporta alla narrazione del genere il suo grande capovolgimento: normalmente, questo tipo di racconti si concludono con il sacrificio del padre, una simbolica rappresentazione della necessità di dover lasciare spazio alle nuove generazioni in un mondo che non appartiene più alle vecchie, un’espiazione dei peccati attraverso la morte. ln questo caso però, per poter salvare l’umanità, The Last of Us non richiede più il sacrificio del vecchio, ma del giovane. È Ellie che dovrebbe morire, sacrificata all’altare della scienza per trovare una cura, ed è per questo motivo che Joel non può permetterlo. La scelta che compie nel finale è una scelta egoistica e unilaterale, presa senza consultazioni e dettata solo dall’impossibilità di accettare un’altra perdita.
Vi è un altro personaggio che i due protagonisti incontrano nel corso della storia che funge da contraltare, l’altra faccia della medaglia di Joel: si tratta di Henry, il ragazzo incontrato a Kansas City che rappresenta nuovamente una figura di mentore fallimentare. Nel corso della storia, Henry si trova costretto ad eliminare il fratello minore, Sam, infettato e in procinto di uccidere Ellie. L’incapacità di portare a termine il suo ruolo di capofamiglia, l’improvvisa eliminazione del ragazzino, rappresenta anche la totale cancellazione del futuro di Henry, che non può trovare altra soluzione se non il suicidio.
Importante per la comprensione della serie è nuovamente il messaggio ecologista, che come in molte altre opere post-apocalittiche si può facilmente individuare tra le pieghe della storia. La natura, considerata dall’uomo come controllabile e a sua disposizione, si ribella e altera lo status quo globale, questa volta attraverso un micidiale fungo parassita che si diffonde a discapito degli altri organismi. Dove l’uomo lascia il seggio vacante, il verde, le piante e gli animali arrivano a riempire il vuoto creatosi. Da questo punto di vista, ancora più rappresentativo è il momento in cui i protagonisti incontrano una giraffa tra gli edifici collassati, un neo-rovinismo post-apocalittico che, come per i romantici, attraverso il nuovo immaginario di rovine post-moderne funge da monito della caducità delle strutture sociali, create e non naturali, e come tali destinate un giorno a lasciare spazio alla natura.
The Last of Us, insomma, è una serie altamente stratificata in cui si intrecciano diversi livelli di interpretazione, diverse ispirazioni e diverse chiavi di lettura, fondendosi nella creazione di quella che è una delle migliori serie TV del panorama internazionale degli ultimi anni.
Gianluca Tana