The Monkey di Osgood Perkins, la recensione del film

The Monkey

La traiettoria della carriera di Osgood “Oz” Perkins è un saliscendi curioso, un pendolo che oscilla tra opere ispirate (February, Longlegs) e lavori alquanto scialbi (Sono la bella creatura che vive in questa casa, Gretel e Hansel). Il suo ultimo film, The Monkey, rientra purtroppo in questa seconda categoria. Tratto dall’omonimo racconto breve di Stephen King, The Monkey ne mantiene la gimmick, la “trovata” narrativa che vede la presenza di una scimmietta giocattolo in grado di causare numerose e orripilanti morti attorno a sé, privandola però di un senso ultimo caratterizzante. E se da un lato la natura da divertissement del film apre a strade potenzialmente interessanti, dall’altro lato l’accentuazione eccessivamente frivola del suo racconto ne annulla ogni forma di rilevanza, cadendo a più riprese nello sciatto e nel mediocre. Perché, di fatto, The Monkey è prima di tutto una commedia demenziale. Una di quelle pessime.

Il topos classico dell’oggetto animato, maledetto o posseduto qui fa da sfondo horror a una serie di vicende tragicomiche che vedono come protagonisti due fratelli gemelli, Hal e Bill, interpretati entrambi da Christian Convery (da bambini) e da Theo James (da adulti). Tatiana Maslany è Lois, la madre dei due gemelli, mentre Adam Scott è Petey, il padre assente (lo vediamo infatti solamente nell’incipit). I due ragazzini trovano la scimmia giocattolo che dà il titolo al film proprio tra gli averi del padre, rinchiusa in una scatola ed etichettata come organ grinder monkey, un gioco di parole divertente che richiama sia le scimmie dei musicisti di strada di organo a rullo di fine Ottocento sia lo spappolamento di organi. Ruotando il meccanismo dietro l’oggetto, la scimmia rulla il suo tamburo (erano dei piatti nel racconto originale), siglando con il suo ultimo colpo la morte di qualcuno nelle vicinanze. Quando Hal e Bill si rendono conto del funzionamento della scimmia è troppo tardi, finendo per alterare significativamente il resto della loro vita, in particolare il rapporto tra Hal e suo figlio adolescente (interpretato da Colin O’Brien).

Più che a King, il debito più grosso The Monkey lo deve alla saga di Final Destination, dalla quale ne riprende l’essenza. Ogni morte sentenziata dalla scimmia giocattolo è infatti un complesso gioco del fato che, in seguito ad una serie di fortuiti eventi, conduce alla dipartita della vittima selezionata. La casualità del processo è un fattore di trama sottolineato più volte dal film, dal momento che uno dei protagonisti richiederà espressamente la morte di un altro personaggio, senza però ottenere l’effetto voluto. È proprio in questo scarto che risiede una delle tante mancate occasioni di The Monkey, che all’approfondimento del senso di colpa di tale scelta preferisce invece anteporre una serie di gag demenziali che mirano solamente a un intrattenimento spicciolo di bassa qualità. E da questo punto di vista, è brutto constatare come persino i capitoli peggiori di Final Destination (o, se vogliamo restare in epoca più recente, pensiamo ai vari – e tremendi – Terrifier) siano comunque più creativi rispetto alle morti viste in questo The Monkey, nonostante qualche trovata gore spiritosa qua e là.

A mancare, nel concreto, è tutta quell’ossatura che potrebbe dare sostanza al film, che non osa mai sul piano simbolico pur avendone tutti gli elementi, dall’assenza paterna al rapporto tra Hal e suo figlio, dalla rivalità fraterna all’esame del passato, sino ad arrivare a tutte le questioni che potrebbero emergere riguardanti il già citato senso di colpa. The Monkey non si preoccupa di tutto questo, e andrebbe bene anche così se la sua proposta filmica fosse perlomeno ricca di spirito. Invece, l’ultimo film di Oz Perkins è un pasticcio che, al massimo, può strappare qualche risata.

Daniele Sacchi