La salute mentale è un tema centrale e imprescindibile nella produzione audiovisiva attuale. Il diffondersi di una sensazione di perenne solitudine, così come le diagnosi di depressione, sono drasticamente aumentati dopo la pandemia, anche per una maggiore consapevolezza del pubblico. The Son si va a collocare proprio al centro di questo dialogo, decisamente trasversale e dagli esiti più vari. Il secondo lungometraggio da regista per Florian Zeller si confronta nuovamente – dopo il riuscitissimo The Father – con il tema della salute mentale, con un film forse meno efficace, ma sicuramente meritevole per la delicatezza e il coinvolgimento emotivo con cui affronta la narrazione.
Il titolo sottolinea immediatamente una certa continuità con il film precedente, non di trama ma, appunto, tematica. Se in The Father si affronta il tema della demenza senile, in The Son troviamo un’analisi della depressione giovanile. Peter (Hugh Jackman) è un uomo di mezza età, ha successo nel lavoro e si è costruito un nuovo nido familiare con la sua seconda e più giovane compagna (interpretata da Vanessa Kirby) e la figlia appena nata. Si lascia dietro l’ex moglie Kate (Laura Dern) e il figlio adolescente Nicholas (Zen McGrath), e saranno proprio i problemi scolastici di quest’ultimo a riportare l’uno nella vita dell’altro.
Nell’affrontare il disturbo depressivo del figlio, Peter dovrà fare i conti con il suo passato, con il suo ruolo tanto di padre quanto, a sua volta, di figlio. Ancora una volta, Zeller ci pone davanti una situazione straziante, un universo claustrofobico in grado di trasmettere perfettamente il clima che orbita intorno al disturbo depressivo. Tenendo a mente la continuità tematica con The Father, però, non si può che notare un evidente calo nell’efficacia della rappresentazione di The Son rispetto al suo predecessore. La carenza nasce dalla scelta del punto di vista: se attraverso gli occhi di Anthony Hopkins (presente anche qui nel ruolo del padre di Peter) in The Father siamo entrati nell’universo della demenza senile, vivendo in prima persona il disturbo, il sospetto, l’angoscia della malattia, in The Son non viviamo la depressione dall’interno, ma dall’esterno.
Osserviamo dunque l’impotenza di un genitore di fronte ad un male di cui non si riesce ad afferrare la gravità, finché infine non sfocia nei suoi esiti più drammatici. Ne viviamo l’imprevedibilità e la paura ma, esattamente come Peter, continuiamo a non capire la causa di ciò che accade davanti ai nostri occhi. Ovviamente non si vuole sminuire la resa, comunque ottima, di The Son, ma si è ben lontani dall’efficacia (anche artistica) di The Father. La seconda fatica di Zeller è, in conclusione, un dramma struggente, una storia attualissima di depressione giovanile, ma anche sulla responsabilità di essere genitore, un film che pur qualitativamente distante dal suo predecessore, conferma Florian Zeller come un grande narratore della psiche umana e dei suoi traumi.
Alberto Militello