The Substance di Coralie Fargeat, la recensione

The Substance

Sette anni dopo Revenge, un esordio che attingeva a un sottogenere superato – il rape and revenge – per coniugarne le derive exploitation con una matrice puramente femminista, la regista francese Coralie Fargeat guarda ora a David Cronenberg, Stuart Gordon e Brian Yuzna con la sua grandiosa opera seconda, The Substance. Non mancano inoltre i riferimenti al cinema kubrickiano, in particolar modo a The Shining, richiamato non solo nel ricorso ad alcune inquadrature con un singolo punto di fuga, ma anche in alcuni dettagli visivi espliciti, come i motivi dei tappeti dell’Overlook Hotel. Ma The Substance non è solo una grande citazione ai maestri del passato. Si tratta, prima di ogni altra cosa, di un body horror estremamente attuale sulla percezione del Sé e della propria immagine, un film dove non c’è più spazio per le vecchie icone, sistematicamente rimpiazzate da ciò che è nuovo, profittevole e soprattutto “bello”.

Emblema di questo processo è Elisabeth Sparkle (Demi Moore), una ex star hollywoodiana che ora sbarca il lunario conducendo un programma televisivo di aerobica. Licenziata dal produttore del programma, Harvey (Dennis Quaid), il quale la considera ormai troppo in là con gli anni, Elisabeth decide di ricorrere a una misteriosa sostanza che si dice garantisca la possibilità di generare una versione migliore di se stessi. Nasce così Sue (Margaret Qualley), doppelgänger più giovane di Elisabeth, partorita attraverso una fessura apertasi nella sua schiena. Le regole sono semplici: le due donne vivranno alternamente, sette giorni ciascuna, stabilizzandosi quotidianamente con i fluidi dell’altra, la quale nel frattempo resterà inerme. Presto però – e com’è naturale che sia – l’equilibrio non potrà che spezzarsi, gettando la vita di entrambe nel caos.

In una riflessione (pur classica) sul dualismo realtà-apparenza e sulla frammentazione identitaria, Fargeat si lascia trascinare dal desiderio di mettere in gioco una proposta cinematografica febbrile e irrequieta, ragionando a viso aperto sul corpo femminile e sulla sua rappresentazione. È un film di macchiette – la protagonista âgée e dimenticata, la sua corrispettiva speculare jeune et jolie, il produttore pervertito (un calco non troppo velato di Harvey Weinstein) – che nello strabordare assurdo e surreale della sua messa in scena contiene in sé tutta la dura concretezza del verosimile, nonché tutti i drammi di uno sguardo meramente oggettivante. Nella banalità che lo caratterizza, Harvey si rende infatti promotore di uno specifico voyeurismo, di una precisa tirannia dello sguardo che prima degrada Elisabeth, per poi rincuorarsi nella sfrontatezza corporea di Sue.

A questo primo livello di indagine, Coralie Fargeat affianca un discorso parallelo che cerca di individuare uno sguardo differente, che è invece personale, rivolto sì verso l’esterno (verso lo sguardo degli altri), ma anche verso l’interno. Elisabeth è Sue e Sue è Elisabeth. Se da un lato entrambe le donne sono vittime di un sistema di desoggettivazione capitalistica dove il corpo – o, in questo caso, la sua immagine, pensiamo ad esempio al videoclip dai toni soft porn girato proprio da Sue – diventa merce di scambio, dall’altro lato ne sono parte attiva. È d’altronde Elisabeth a rincorrere il suo desiderio nostalgico rivolto al passato, alla ricerca della fama di un tempo. È la stessa Sue a volere la sua riduzione mercifica, la quale passa non solo dalla sua esperienza televisiva, ma anche dall’abuso diretto della sostanza che le ha permesso, di fatto, di esistere.

Piano piano, The Substance rende manifeste le conseguenze irreversibili derivate dell’uso improprio del siero tuffandosi mano a mano in un body horror sempre più esplicito, viscerale e gory, eccellendo in particolar modo nel trucco prostetico e negli effetti pratici, sublimando il tutto in una mezz’ora conclusiva che sembra richiamare, nello spirito, Society di Yuzna. Supportato dalle prove attoriali eccezionali delle sue due protagoniste, il film di Fargeat si impone – insieme a Titane di Julia Ducournau – come uno degli horror più belli e convincenti degli ultimi anni.

Daniele Sacchi