Dopo The Chaser (2008) e The Yellow Sea (2010), due ottimi action thriller, il regista sudcoreano Na Hong-Jin si è dedicato con The Wailing (2016) ad esplorare il cinema dell’orrore, un genere che nei suoi due film precedenti aveva solo sfiorato nell’atmosfera e in alcune sporadiche sequenze. In linea con il carattere spesso eclettico delle produzioni provenienti dal suo paese, il risultato della sua operazione è ovviamente tutto fuorché un concentrato degli stilemi più strettamente occidentali del genere. Anzi, The Wailing, La presenza del diavolo nella versione italiana, in netto contrasto con un certo tipo di ricerca dello spavento ad-ogni-costo propria dell’horror hollywoodiano contemporaneo alla The Conjuring (James Wan, 2013), è invece un insieme di elementi eterogenei che, sebbene siano chiaramente riconducibili al loro genere di appartenenza, riescono allo stesso tempo a risultare come estremamente originali nella loro compenetrazione reciproca.
Epidemie, possessioni demoniache, elementi sovrannaturali, misticismo spiritico: Na Hong-Jin si dimostra un abile artigiano nel mescolare alcune delle componenti classiche del cinema horror, incorniciandole allo stesso tempo all’interno di un intreccio che a prima vista potrebbe sembrare quello di un semplice thriller. A Goksung, in Corea del Sud, sono stati commessi numerosi omicidi, probabilmente riconducibili ad un unico assassino che il volgo sembra aver identificato in un uomo giapponese giunto da poco nel villaggio. Un giovane poliziotto locale, Jong-Goo, viene incaricato di indagare sul caso. Allo stesso tempo, alcuni membri del villaggio sono stati colpiti da una malattia non identificata, e secondo i cittadini stessi le cause che avrebbero determinato il suo sviluppo potrebbero essere di natura demoniaca. A partire da un intreccio relativamente semplice, Na Hong-Jin riesce là dove molti cineasti spesso si trovano a fallire: sovvertendo continuamente le aspettative dello spettatore, e tradendo la natura apparentemente lineare della sua idea narrativa, il regista coreano delinea con The Wailing una fabula sorprendentemente complessa, ricca di sottotesti e di possibilità interpretative.
Volendo individuare delle ipotetiche chiavi di lettura, l’opera del regista coreano sembrerebbe in primo luogo attuare un’indagine sull’effettiva utilità delle religioni nell’eterna lotta tra il bene e il male. Senza voler per questo ridurre il proprio apparato retorico ad un’analisi sull’esistenza o meno di questo scontro dicotomico, The Wailing sembra in ogni caso mettere in discussione i presupposti stessi attraverso i quali decodifichiamo e strutturiamo la realtà quando racchiudiamo la nostra comprensione del mondo all’interno di schemi di credenze ben definiti come quelli che ci vengono offerti dalla religione. In particolar modo, il regista sudcoreano chiede ai suoi spettatori se, immedesimandosi con il protagonista del film e dovendo dare una risposta agli interrogativi di natura teologica che gli vengono implicitamente posti, specialmente nel finale, sarebbero in grado di decodificare oggettivamente i fatti presentati attraverso il ricorso all’interpretazione delle loro credenze.
Tuttavia, sebbene ci si aspetti una risposta negativa a questa domanda, quest’ultima non viene risolta con chiarezza. The Wailing non è un film che può essere ridotto ad una mera visione nichilistica della realtà, bensì si dà come un’opera aperta a molteplici riflessioni di varia natura. Sul piano tematico, un’ulteriore chiave di lettura può essere assegnata al ruolo dell’uomo giapponese al centro degli eventi del film. L’atteggiamento xenofobico che gli abitanti del villaggio intrattengono nei confronti dello straniero sembra richiamare esplicitamente il conflitto culturale e identitario della Corea postcoloniale. La riduzione dell’Altro, inteso come il diverso che non può essere accomunato al legittimo, ad un’entità generatrice di caos, a capro espiatorio fonte di ogni male, è un tratto tipico della rappresentazione nazionalista e stereotipata che la società sudcoreana sembra spesso assegnare alla figura dello straniero, il più delle volte di nazionalità giapponese. The Wailing incorpora questo tipo di narrazione extrafilmica nel proprio intreccio, cercando pertanto di mettere attivamente in scena le contraddizioni intrinseche del popolo sudcoreano rendendole un vero e proprio elemento attivo per la trama.
Da commento sociale a indagine teologica, da presunto film di genere a pastiche di stili, The Wailing è un’opera che ha il merito di racchiudere dentro di sé molte cose differenti tra di loro, riuscendo tuttavia a proporle in modo coerente ed accurato: una peculiarità che al giorno d’oggi poche pellicole possono vantarsi di possedere.
Daniele Sacchi