“Titane” di Julia Ducournau – Recensione

Titane

Nel 2016 Julia Ducournau esordiva con Raw, un’opera prima violenta, vibrante di corporeità ambigue e di cannibalismi pulsionali, in grado di esaminare in profondità il rapporto tra due sorelle con se stesse e con i misteri della carne. Oggi, con Titane, Ducournau riprende le stesse configurazioni segniche di Raw ma risemantizzandole sotto una nuova luce. Il film, che si è aggiudicato la Palma d’oro al Festival di Cannes, è un ulteriore segno – se non fosse ancora chiaro – di quanto la cinematografia estrema francese sia riuscita negli ultimi decenni ad esaminare proficuamente i deliri e le derive del contemporaneo, rielaborando qui queste istanze attraverso il personaggio di Alexia (Agathe Rousselle).

Alexia è la forza trainante di Titane, eco distruttiva e irrefrenabile del reietto, nonché figura dall’identità parcellizzata e ineffabile. Alexia non prova alcun sentimento di vicinanza verso la sua famiglia e tiene lontano da sé le altre persone. Scopriamo presto che la ragazza è un’assassina seriale ed è solita uccidere brutalmente le sue vittime con il suo fermacapelli. Alexia possiede inoltre una caratteristica fisica peculiare, una placca di titanio contenuta nella sua calotta cranica a causa di un incidente automobilistico che l’ha coinvolta da bambina. Lo vediamo accadere nella sequenza iniziale, con Alexia che, una volta uscita dall’ospedale, ignora platealmente i suoi genitori per abbracciare e poi baciare affettuosamente l’automobile. Un foreshadowing, già suggerito dalla primissima inquadratura del film sulle componenti interne della vettura, di quella che sarà l’esperienza di vita di Alexia nella sua progressiva ibridazione metallica, a partire dalle sue performance in un salone dell’auto sino ad arrivare infine alla pura innervazione sessuale con la sua Cadillac.

Titane

Se da un lato Titane potrebbe riportarci alla mente Crash di David Cronenberg, la congiunzione corporea tra Alexia e la sua automobile è in realtà più vicina alle derive tipiche del cinema di Shin’ya Tsukamoto. Ducournau sfida la percezione spettatoriale nell’esibizione di una corporeità che diventa un tutt’uno con la componente metallica, con il corpo di Alexia che è naturalmente teso verso tale commistione perché è già esso stesso metallo. Non siamo di fronte ad un innesto o ad un upgrade, non vi è alcuna forma di enhancement tipico dell’estetica cyberpunk. Alexia è, di fatto, sottoposta ad una vera e propria corruzione della sua umanità da parte del metallo, una consapevolezza che se da un lato diventa prospettiva identitaria, dall’altro lato finisce per confinare la ragazza in un reale conturbante dal quale non sembra esserci via di fuga, una dimensione fatta di dolore e – come da tradizione per la New French Extremity – di sangue, qui rimodulato in grondante olio di motore.

Un’apertura sembra però essere possibile. In fuga dalle autorità, Alexia si costruisce una nuova identità, quella di Adrien, il figlio scomparso da ormai molti anni del comandante dei vigili del fuoco Vincent (interpretato da Vincent Lindon). In questa cornice finzionale, tra pulsioni steroidee, fluidità di genere e una gravidanza inaspettata, Alexia cercherà di ritrovare la propria umanità, messa alla prova dalle lacerazioni – corporee e dell’animo – del metallo. Nel nuovo quadro familiare, ambiguo e frammentario a causa dell’instabilità psicologica di Vincent e della singolarità di Alexia/Adrien, Titane offre la possibilità di una ricomposizione. Julia Ducournau espande dunque il discorso già avviato in Raw in un’opera che, da esperienza traumatica del corporeo, si trasforma in un elogio all’empatia. Sofferto, smodato, eccessivo, ma lucido e consapevole.

Daniele Sacchi