«Vedi ancora Tokyo come una città piena di vita?»: è la domanda centrale a cui Aya (Asami Mizukawa) non riuscirà a rispondere, e la domanda che lo spettatore si porrà più volte durante tutte e undici le puntate di Tokyo Girl (Tôkyô Joshi Zukan, 2016), show marcato Amazon Original e diretto da Yuki Tanada (regista dello splendido Romance Doll). Uno show che mostra la megalopoli giapponese dall’interno, offrendoci dei volti della città che difficilmente vengono rappresentati nelle produzioni internazionali. In altre parole, una serie che ha il valore di un documentario, il che costituisce il pregio e il limite di questo prodotto senza dubbio interessantissimo.
Tokyo è una città sconfinata, un insieme di quelli che, citando un celebre romanzo di Claudio Magris, si possono definire “microcosmi”: tante realtà coesistenti, ognuna con la sua logica interna, il suo sistema di valori e le sue tradizioni. Il punto di vista che ci viene offerto è quello di Aya, ragazza di Akita (prefettura a nord del Giappone) la cui ambizione e adorazione per la capitale la porteranno a spendere tutte le sue energie nel tentativo di raggiungere un determinato status, di distinguersi ed essere un’ispirazione per gli altri. A Tokyo vivrà un mondo fatto di pregiudizi, soprattutto verso chi proviene da altre regioni del Giappone, di biglietti da visita, appuntamenti di gruppo e ostentazione, competenze e formazione, confrontandosi con una classe estremamente ricca e conservatrice che vuole rimanere tale. Entrarne a far parte è proprio il sogno di Aya, sogno che la porterà a trascorrere ben vent’anni della sua vita nella capitale.
La trama di Tokyo Girl resta poco articolata e volta principalmente ad esplorare la città e i suoi ambienti, mentre lo stile è spesso troppo didascalico, con molto voice over, con un’abbondanza di immagini e di descrizioni di luoghi e ristoranti. Un elemento del documentario usato, invece, in maniera più originale è quello dell’intervista, in cui un personaggio parla direttamente alla camera (seguendo quella che è ormai una moda nel cinema e nella serialità), descrivendo un fenomeno o una situazione. Diventa presto evidente, così, di come lo show parli nello specifico della condizione delle donne in Giappone, degli standard di vita irraggiungibili e della difficoltà ad affermarsi in un ambiente conservativo fatto di etichette che non possono sovrapporsi.
Quello che riesce difficile da inquadrare è chi sia il target effettivo dello show, che sembra pensato principalmente per un pubblico giapponese, sebbene è il pubblico non autoctono che ne potrebbe trarre i maggiori insegnamenti. La storia sembra voler suggerire un indirizzamento verso le giovani donne ambiziose che sognano la grande città, che però è eccessivamente specifico anche per un periodo in cui i tag e le parole chiave fanno da padroni. Resta in sospeso la finalità della serie, indecisa tra l’informare, l’ammonire e il denunciare, ma che risulta comunque come un ottimo prodotto per avere uno sguardo più intimo e meno edulcorato di una delle città più popolose del mondo.
Alberto Militello