Bastano pochi minuti per entrare pienamente nel mood di un film di Hal Hartley, tra situazioni estremamente bizzarre, personaggi strambi e dialoghi sopra le righe. Eppure, nel disordine caotico e disfunzionale tratteggiato dal regista statunitense si può sempre ritrovare un certo grado di autenticità, una matrice di una realtà – priva di coordinate e di punti saldi – perennemente tesa tra le possibilità di un suo annullamento o di una sua salvezza. Ne sono ben consapevoli i protagonisti di Trust, Maria (Adrienne Shelly) e Matthew (Martin Donovan), due figure smarrite e alla deriva alla ricerca di un senso superiore ai drammi della vita e alle vacuità del reale.
Maria è incinta, ha lasciato la scuola, il padre è deceduto in seguito ad un attacco di cuore, la madre l’ha cacciata di casa. La sequenza della morte del padre racchiude il significato di tutto il cinema di Hartley: dopo un breve alterco, l’uomo riceve un ceffone dalla figlia, resta immobile, attonito, e dopo qualche minuto cade a terra improvvisamente, privo di vita. Vi è una precisa ironia dissacrante che permea tutta la produzione di Hal Hartley (qui e nel precedente L’incredibile verità è ancora moderata, mentre raggiungerà livelli spropositati nella trilogia composta da Henry Fool, Fay Grim e Ned Rifle), un indice di una precarietà esistenziale che abbraccia ogni cosa, decostruendo ogni interazione e rapporto. D’altronde, «io non ho relazioni, io non amo nessuno» è il mantra di Matthew, un tecnico riparatore di apparecchi elettronici che vive con il padre violento e che allontana costantemente tutto e tutti da sé.
Da situazioni familiari difficili emerge così una spinta alla sopravvivenza che avvicina i due protagonisti di Trust, cercando una risposta al loro dolore nella fiducia reciproca, un miraggio sinora ineffabile nelle loro vite. E dalla fiducia, il rispetto e l’ammirazione non può che derivare un sentimento di amore in grado di sfidare ogni incertezza e pericolo. Non si tratta di un percorso semplice, però. Le difficoltà di Maria e Matthew non svaniscono con il loro incontro, le pressioni familiari e le insicurezze che ne derivano schermano la loro relazione, filtrandola e limitandola. Le azioni della madre di Maria (interpretata da Rebecca Nelson), in particolare, giocano da elemento di disturbo dilagante per i due, portando in scena una volontà prevaricatoria, oppressiva e repressiva che disarticola i fondamenti stessi del suo essere madre, finendo per coinvolgere nelle sue macchinazioni degenerate anche la figlia maggiore Peg (Edie Falco).
Da questo punto di vista, Hartley assume in Trust uno sguardo femminile predominante, ponendo al centro del suo film un concetto di maternità frantumata che non sembra facilmente ricomponibile. Si tratta di una presa di posizione sul reale che coinvolge anche la stessa Maria, di fatto una teenager colta da una gravidanza inaspettata che si trova a dover fare improvvisamente i conti con l’eventuale accettazione o rifiuto della sua condizione, con lo spettro dell’aborto che si manifesta presto con tutta la sua inevitabile concretezza. A partire da queste suggestioni, Hal Hartley indaga con la relazione tra Marie e Matthew la possibilità del raggiungimento di un equilibrio, con la figura maschile che si dimostra a sua volta capace di emergere realmente per empatia e connessione solo nel suo interfacciarsi con una sensibilità peculiarmente femminile. Solo grazie a questo confronto, Matthew potrà ambire a liberarsi da quella pulsione autodistruttiva apparentemente irrefrenabile che lo divora dall’interno come una bomba pronta ad esplodere da un momento all’altro.
Daniele Sacchi