Ėlem Klimov ricorda il periodo della Seconda guerra mondiale come un vero e proprio inferno (cfr.). In fuga da Stalingrado nell’ottobre del 1942, il regista russo – allora bambino – si trova di fronte a scenari raccapriccianti, con la visione della città e del Volga in fiamme a causa degli incendi alle raffinerie di petrolio provocati dalla Luftwaffe, l’aviazione militare nazista. Non è un caso che il suo film più conosciuto e apprezzato, Va’ e vedi (1985), contenga un riferimento esplicito nel suo titolo – con una sfumatura leggermente differente nella versione italiana – proprio all’Apocalisse di Giovanni: «Quando egli aperse il quarto sigillo, udii la voce del quarto essere vivente che diceva: vieni e vedi. E io vidi, ed ecco un cavallo giallastro; e colui che lo cavalcava aveva nome la Morte, e dietro ad essa veniva l’Ades. E fu loro data potestà sulla quarta parte della terra, per uccidere con la spada, con la fame, con la morte e mediante le fiere della terra». Da un lato, dunque, la Morte, e dall’altro l’Ades, l’Inferno, inteso più precisamente come tomba e sepolcro, come il luogo dove riposano i morti.
Va’ e vedi, in tal senso, non si presenta come un film di guerra “tradizionale”, ma come un’opera che pone come suo elemento strutturante fondamentale e irrinunciabile il sentimento dell’orrore. Al centro del film non troviamo né la messa in scena di grandi battaglie né la presenza di vacue retoriche pro o antimilitariste (se non un onnipervasivo messaggio contro la guerra che chiaramente permea la pellicola), ma il trauma concreto dell’esperienza bellica. Nella Bielorussia del 1943, occupata dai militari nazisti, Ėlem Klimov ci mostra il tentativo di resistenza da parte delle forze partigiane sovietiche. Nello specifico, lo sguardo spettatoriale si sovrappone progressivamente, sino a diventare un tutt’uno, con quello del protagonista del film, il giovane Fljora (interpretato da Aleksei Kravchenko).
Va’ e vedi, di fatto, è la rappresentazione di una realtà soggettiva, quella del ragazzo, nel rapporto con il dramma e con la tragedia della guerra, in un modo concettualmente simile a quello attuato ad esempio da Andrej Tarkovskij ne L’infanzia di Ivan (1962), con però una grande differenza sostanziale di fondo: se da un lato le vicende che vedono Ivan come protagonista non possono che darsi come irrimediabilmente intrecciate con un substrato contemplativo e mistico, in Va’ e vedi il percorso di vita di Fljora si presenta invece con i connotati di una pura esperienza del terrore, in alcuni casi suggerita e in altri casi brutalmente esibita.
L’atroce realismo di Va’ e vedi passa sempre attraverso il filtro dello sguardo di Fljora, con il primo piano del ragazzo che riempie spesso i bordi dell’immagine cinematografica per mostrarci la sua diretta risposta emotiva al degrado umano, individuale e collettivo, che si trova costretto a vivere e dal quale non può sottrarsi. Il film di Klimov è, in tal senso, anche un’opera sul volto, con i personaggi che in diverse occasioni guardano dritto verso la macchina da presa, chiamando apertamente in causa lo spettatore, prendendo una posizione definitoria netta nell’istituirlo sia come un soggetto che guarda sia come un soggetto che viene guardato, ribadendo allo stesso tempo la centralità di un’esperienza soggettiva e non totalizzante del rappresentato.
In una sequenza, ad esempio, Klimov presenta alcune immagini d’archivio relative al periodo storico trattato: corpi scheletrici, malnutriti, deperiti o deceduti, sottoposti a torture e atrocità orribili. Il regista, come sostiene anche Roger Deakins in un suo elogio al film (visionabile qui), sembra quasi suggerire allo spettatore che avrebbe potuto inserire nell’opera delle sequenze molto più viscerali da un punto di vista visivo, preferendo invece alimentare l’immaginario spettatoriale con una serie di connessioni che passano anche e soprattutto dall’aspetto formale. I primi piani, si diceva, ma anche il frequente ricorso alla steadicam o ad un sound design atipico e imprevedibile, che in alcuni casi ci identifica con Fljora – pensiamo alla sequenza del bombardamento e del fischio nelle orecchie del ragazzo – o che in altri casi alimenta la sensazione di spaesamento e l’aura orrorifica dell’opera, come nel caso della danza surreale della giovane Glaša (Olga Mironova) sotto le note di un brano tratto da Il circo (1936) di Grigorij Aleksandrov.
Uno dei momenti maggiormente significativi e di impatto di Va’ e vedi consiste sicuramente nell’assalto condotto dalle truppe naziste in un villaggio bielorusso, un vero e proprio manifesto del disumano, culminante poi nel clamoroso climax conclusivo, in cui reale e immaginario si incontrano e si scontrano in un’azione iconoclasta che pone di fronte a Fljora – e, di conseguenza, allo spettatore – un dilemma morale irrisolvibile. Ancora prima, però, il momento in cui il ragazzo ritorna nel suo villaggio d’origine in cerca della madre sintetizza pienamente l’incredibile operazione sovversiva sull’immagine attuata dal regista russo. Le case vuote, gli oggetti della quotidianità abbandonati, il cibo ricoperto dalle mosche: lo spettatore ha già compreso quello che è successo, ma non il ragazzo, e solo una breve e fugace occhiata di Glaša ci pone di fronte alla brutale verità. Il capolavoro di Ėlem Klimov, la cui produzione venne ostacolata per 8 anni dalla commissione di Stato sovietica per il cinema (il Goskino) perché considerato troppo realistico, è una «prova della guerra» e una «richiesta di pace», come sostenuto dal co-autore Ales Adamovich (cfr.), un prodotto culturale e cinematografico dal valore umano inestimabile.
Daniele Sacchi