«Senza saperlo, ero ormai in uno stato avanzato della più strana malattia che possa colpire un essere umano. Nei primi sintomi c’era un indefinibile fascino che mi impediva di capire la natura stessa della mia debolezza. Questo fascino continuava a crescere, fino a quando non raggiunse un punto in cui al fascino stesso si mescolò l’orrore». In questa breve citazione è possibile scorgere tutta l’essenza di Vampyr di Carl Theodor Dreyer, la fascinazione primordiale, intrinsecamente orrorifica, che guida e orienta le «strane avventure» di Allan Gray, David in alcune versioni (nonché l’unica interpretazione attoriale di Julian West, pseudonimo del barone Nicolas de Gunzburg).
Non è un estratto di Dracula di Bram Stoker, bensì di Carmilla di Joseph Sheridan Le Fanu: a differenza degli adattamenti dell’epoca, da Nosferatu il vampiro di F. W. Murnau al Dracula di Tod Browning, Vampyr prende le mosse da un immaginario vampiresco differente, evocativo e fantasmatico. È una storia di fantasmi e di ombre, di fatto, Vampyr di Dreyer, il primo film sonoro del regista danese il quale, pochi anni dopo La passione di Giovanna d’Arco, si allontana con vigore dall’esame dei processi della Storia per rifugiarsi in una cornice fantastica, esoterica e spettrale.
Se da un lato è evidente la lezione espressionista (difficile, d’altronde, non interfacciarsi in qualche modo con il capolavoro di Murnau nell’ottica di una produzione vampiresca), dall’altro lato è la matrice dell’onirico, del vagare nella notte, del curiosare il proibito, a proporsi come chiave espressiva fondamentale del testo filmico. Le suggestioni gotiche di J. S. Le Fanu sono il principale veicolo atmosferico e sovrannaturale di Vampyr, contrapposte a loro volta con la concretezza delle parole tratte dal fittizio libro Die Seltsame Geschichte der Vampyre di Paul Bonnant.
Nonostante lo scarto semantico con il film precedente, ritorna anche qui in alcune sequenze l’intensità dei primi piani, rimodulati come fotografie della morte: pensiamo al momento della scomparsa del castellano (Maurice Schutz), all’enigmatica visione della sepoltura del protagonista, o all’insistenza sul volto della malata Léone (Sybille Schmitz). Sull’importanza della Morte nel discorso del film, da questo punto di vista, Dreyer era stato chiaro sin dall’inizio, con la figura del mietitore che compare senza mezzi termini in apertura, in attesa di portare a termine il proprio compito.
La cifra stilistica predominante del film, in ogni caso, è da ricercarsi nella commistione tra ombre reali e immaginarie, tra presenze e assenze, tra figure ineffabili che appaiono e scompaiono ed entità apparentemente tangibili che, però, perdono la loro effettiva sostanza materica nell’entrare a contatto con la configurazione labirintica del maniero, con i riflessi del morboso (il dottore) e con i sintomi di una perversione innata dello sguardo (Gray). I valori estetici e i valori espressivi di Vampyr si incontrano nell’effettiva manifestazione del sovrannaturale, con la mitologia archetipica vampiresca che risiede a monte di un processo che, prima di tutto, è il corrispettivo di una visione disconnessa e frammentaria, un enigma della mente.
Non stupisce, in tal senso, lo sdoppiamento di Gray nella sua visione, con l’uomo che nella trasparenza suggella la propria forma fantasmatica, rendendo finalmente reale il suo essere già spettrale. Nella ricerca di un senso alle sue pulsioni scopiche e voyeuristiche, il protagonista di Vampyr trova una via di fuga all’orrore, accettando la sua natura di sonnambulo nel mondo, mentre, di nuovo, la dimensione onirica investe pienamente i confini del Reale.
Daniele Sacchi