Alla base dell’interesse di molti documentaristi nei confronti della rappresentazione cinematografica di Milano si può individuare la peculiare metamorfosi di cui è stata protagonista negli ultimi anni. Se da un lato Milano è nota per il suo ruolo di centro economico e finanziario, importante polo universitario e mèta turistica, a un’attenta analisi si può affermare che la realtà milanese sia molto più sfaccettata di questo limitante ritratto. Milano si configura come una città multiculturale ed eclettica e, in quanto tale, offre una varietà di realtà e situazioni che ben si presta a essere descritta da un esteso corpus di opere, senza che queste risultino ripetitive o che esauriscano la descrizione del luogo. La dimensione urbana milanese è a sua volta formata da una serie di microcosmi dalla composizione unica, regolati da specifici equilibri. Nell’area nordest di Milano c’è una via che collega una delle zone più rinomate dello shopping milanese, Corso Buenos Aires, alla riva del fiume Lambro: Via Padova. Via Padova è un crocevia di diverse culture e questa diversità ben si rispecchia nel paesaggio urbano della via stessa, caratterizzata dalla presenza di attività commerciali legate a diverse culture e tradizioni. Questi locali sono veri e propri luoghi di incontro per le comunità stesse. Tuttavia, non sempre la coesistenza è pacifica e priva di tensioni. La criminalità e la violenza sono spesso raccontate dai giornali (locali e non) che si concentrano sull’aspetto di illegalità che da decenni caratterizza la via.
È proprio per via di questa diversità e della molteplicità di discussioni che su di essa possono essere condotte che il discorso filmico su via Padova è vario e composito. A un panorama sociale non univoco corrispondono innumerevoli rappresentazioni e interpretazioni. Prendono così il via dei veri e propri esercizi di stile alla Queneau (questa volta cinematografici), che partendo dalla descrizione documentaristica dello stesso luogo e dal tentativo di individuarne il genius loci danno vita a risultati straordinariamente distanti tra loro.
È questo il caso di Via Padova, istruzioni per l’uso (2010) di Anna Bernasconi e Giulia Ciniselli (visionabile qui) e di Milano, Via Padova (2016) di Flavia Mastrella e Antonio Rezza (qui il trailer). I due lavori mostrano intenti e modalità comunicative dissimili, ricorrendo a prospettive diverse e veicolando immagini ben distinte dell’area di via Padova. Se le due registe di Via Padova, istruzioni per l’uso dedicano buona parte della loro opera a un’osservazione silenziosa degli abitanti della via nel loro ambiente domestico – e quindi in un contesto di intima tranquillità che spinge all’apertura e a una sincera condivisione –, Rezza e Mastrella agiscono a livello della strada e della folla che la attraversa quotidianamente, effettuando rapide interviste rubate ai passanti con intenti dichiaratamente provocatori. Ciò che risulta dalle due rappresentazioni, come si vedrà, sono due lavori quasi agli antipodi.
Nel tentativo di proporre una narrazione alternativa di via Padova, Giulia Ciniselli e Anna Bernasconi cercano di far descrivere la via a una minoranza – quella delle donne – dando loro la parola. La centralità delle figure femminili è chiara: sono molti i ritratti di donna proposti in quest’opera e sono spesso situazioni in cui è sola all’interno dell’ambiente domestico e la presenza dell’uomo è secondaria o sporadica. All’immagine “urlata” proposta dai media, le due registe decidono di opporne una raccontata sottovoce, quella narrata dalle donne che vivono la via. Nasce così il progetto del film, che mette la diversità al centro sin dal principio. Nelle prime tre sequenze le lingue parlate sono il cinese, lo spagnolo, il tagalog e l’arabo. Solo nella terza sequenza si sente l’italiano per la prima volta: a parlarlo è una bambina di origine cinese che definisce alcuni egiziani «cattivi», esplicitando fin da subito il complesso rapporto tra le comunità che popolano la via.
Sono diverse le scelte stilistiche che veicolano la rappresentazione della quotidianità delle donne protagoniste. In primo luogo, si tratta quasi sempre di ambienti interni: le donne sono riprese all’interno delle loro case o delle associazioni e delle scuole che frequentano, nella tranquillità dell’ambiente domestico e quindi distanti dal caos della via che viene narrata. In secondo luogo, la modalità tecnica e stilistica di rappresentazione delle donne è quella di primi e primissimi piani sui loro visi, sugli sguardi e sui loro gesti. Questa scelta permette uno scandaglio emotivo e psicologico profondo e attento.
Il tema della via è comunque presente, anche se risuona come lontana eco all’interno delle case che su questa si affacciano soltanto ma che con essa non si identificano. Le immagini che collegano un ritratto all’altro ritraggono il passaggio urbano composto da pedoni per la strada, dall’autobus 56 che percorre la via, dal parco Trotter e dalle più diverse attività che plasmano l’identità dell’area: un kebab, un locale di alimentari etnici, un centro Western Union per inviare denaro ed effettuare chiamate verso l’estero. Le due registe sviluppano un discorso sul configurarsi di una nuova collettività femminile basata sulla solidarietà e su un comune sentimento di spaesamento e a tratti di difficoltà affrontato con determinazione e forza.
In Milano, Via Padova, si parla invece di tutt’altra collettività. Il dialogo tra il regista e i suoi intervistati parte da una semplice e domanda: «ospitereste in casa vostra uno straniero nullafacente?». Questo spiazzante interrogativo viene posto a cittadini italiani quasi sempre in presenza di uno straniero e stupisce come, nonostante la presenza dell’ipotetico ospite in questione, le persone non mostrino remore nel rispondere in maniera categorica e negativa. Tale risultato ha molto a che vedere con la scelta degli interlocutori. Infatti, la prima cosa che risulta dalla visione del film è che i testimoni intervistati sono molto simili tra loro e sembrano corrispondere a un preciso identikit. Si tratta di persone anziane che non celano il proprio ben radicato pregiudizio e che, tuttavia, stentano a giustificarlo in maniera razionale. La selezione delle testimonianze presenti nel film è stata effettuata in modo da conferire un certo carattere all’opera e trasmetterle un determinato ritmo. Le scelte di Rezza e Mastrella possono risultare controcorrente e distanti dalla tradizione narrativa cui siamo abituati. Non si tratta qui di additare il razzismo come origine e causa di scontri sociali e diffidenza alla base del pregiudizio ma di porre l’accento sulla stupidità. La domanda non è che uno stratagemma per dare dinamicità al film, le affermazioni più ciniche e cattive sono quelle che danno ritmo al film e che intrattengono il suo pubblico. Le interviste condotte da Rezza sono svolte in chiave ironica, basandosi sul paradosso, e ciò che colpisce (e che conferisce comicità a molte scene del film) è l’atteggiamento del regista, che si rivolge agli intervistati con un tono di serietà e preoccupazione che impedisce loro di coglierne l’ironia, spronandoli ad approfondire maggiormente l’insensatezza della loro posizione.
L’idea che emerge della via è ben differente da quella proposta da Ciniselli e Bernasconi. Lo sguardo di Rezza e Mastrella non si concentra tanto sull’aspetto multiculturale e non indaga i meccanismi di integrazione. Si sofferma invece sull’ostilità mal giustificata di molta parte della popolazione di via Padova. Contrariamente a Via Padova, istruzioni per l’uso, gli spazi descritti sono esclusivamente quelli esterni. Rezza vaga nei luoghi pubblici che più rappresentano via Padova: la fermata della linea 56, il parco Trotter, il sagrato di una chiesa, la via stessa.
Un’ulteriore divergenza tra i due film risiede nello stile e nella modalità di ripresa: Rezza e Mastrella riprendono i loro soggetti a mezza figura o a figura intera ricorrendo all’uso della camera a mano e a tagli e cambi camera frequenti nel montaggio all’interno della stessa sequenza, riducendo così la possibilità di soffermarsi sulla figura dell’interlocutore. Lo stile dinamico che ne risulta e il loro modo di incalzare le persone intervistate è assimilabile a quello delle riprese dei giornalisti d’assalto o ai guerrilla filmmaker. Come risulta dall’osservazione delle inquadrature del film, non sono rare le riprese completamente oblique che conferiscono un senso di spaesamento o fastidio. I due registi di Milano, Via Padova non cercano l’approfondimento psicologico dei loro interlocutori, del loro stato emotivo, vogliono piuttosto ricevere le loro impressioni nell’immediato per poter estrapolarne i giudizi.
La costante presenza di Rezza, centrale in ogni scena del film, funge da miccia a situazioni che spesso “esplodono” rivelando il paradosso che a queste soggiace. L’autore ferma i suoi interlocutori per strada con sicurezza e invadenza, rivolgendo loro domande decontestualizzate e, una volta all’interno del discorso, li interrompe a suo piacimento per passare la parola ad altri passanti. Il regista appare irrequieto nel suo continuo spostarsi, avvicinare il microfono di volta in volta a un interlocutore diverso. La fisicità di Rezza, quindi, insieme ai frequenti stacchi e al costante movimento della camera a mano, trasmette l’idea di un continuo spostamento.
Mentre Via Padova, istruzioni per l’uso si concentra sulla dimensione individuale e su difficoltà che spesso non scaturiscono dalla via o dal quartiere stesso, quanto dalla lontananza da casa o da una situazione economica complessa, Milano, Via Padova fa dei pregiudizi e dello scontro tra culture, lingue e prospettive il suo punto di forza, trattandolo con l’ironia che denota lo stile autoriale di tutto il film.
Bonus track: Giulia Ciniselli è tornata alla rappresentazione di Via Padova nel 2018 con Prossima fermata via Padova. Altri documentari sul quartiere: L’orchestra di via Padova (2012, di Giuseppe Baresi).
Chiara Passoni