«Una ragazza, una città, una notte, una ripresa». La locandina di Victoria (Sebastian Schipper, 2015) stabilisce immediatamente le basi di ciò che la pellicola, sostanzialmente, vuole rappresentare. Il film di Schipper, realizzato in un impressionante piano sequenza di 2 ore e 20 minuti circa, racconta una notte berlinese attraverso gli occhi di Victoria (Laia Costa), una ragazza spagnola che ha fatto della Germania la sua nuova casa dopo aver abbandonato il conservatorio, al quale aveva dedicato l’anima, insieme alla sua terra natia. Dopo aver trascorso la serata in un locale, il suo incontro con un gruppo di giovani delinquenti locali le offrirà la notte più intensa della sua vita.
Lo stratagemma della ripresa unica, che potrebbe apparire inizialmente come una gimmick, una trovata puramente stilistica e asettica che tendenzialmente non vorrebbe aggiungere nulla al contenuto del film, finisce in realtà per determinare un’importante relazione tra forma e sostanza che si dimostra fondamentale nel caratterizzare a dovere lo svolgimento dell’intreccio dell’opera. L’idea di rendere la durata dell’esperienza spettatoriale coincidente con la durata effettiva della pellicola permette allo spettatore di immedesimarsi con il film stesso: non tanto nelle persone specifiche dei suoi protagonisti, che ad eccezione (forse) di Victoria, non si presentano come degli individui particolarmente raccomandabili, bensì con l’intensità stessa del rappresentato, con le emozioni che vuole suscitare, con l’immagine cinematografica in quanto tale.
Così, la maestria tecnica di Victoria, al di là di qualche sbavatura passabile nel sound mixing nel caso di alcuni rumori di fondo come il respiro dell’operatore di ripresa, si muove di pari passo con l’articolarsi del suo paesaggio narrativo. Il lavoro svolto dal direttore della fotografia Sturla Brandth Grøvlen insieme al regista del film (senza dimenticare la colonna sonora curata da Nils Frahm) è in tal senso impeccabile, teso verso il tentativo di presentare allo spettatore delle situazioni verosimili nella loro apparente assurdità. A rendere realistico l’apparentemente inspiegabile plot di Victoria, che vede la giovane ragazza accettare di aiutare i ragazzi con un lavoro illegale che una giovane expat con un impiego part-time in una caffetteria normalmente non accetterebbe, vi è un solido equilibrio tra un ottimo studio caratteriale dei personaggi e il modo in cui questo viene effettivamente realizzato.
Nella prima parte di Victoria ad esempio, i dialoghi semi-improvvisati tra i protagonisti ci forniscono un ritratto realistico di giovani alla ricerca della propria identità e del proprio ruolo nella società, a partire soprattutto da Victoria stessa. Già solo l’intreccio di idiomi, tra l’inglese e il tedesco, passando inoltre per qualche battuta pronunciata dalla protagonista in spagnolo, ci suggerisce un’idea di modello multiculturale che ci mostra una Germania che si trova a dover fare i conti quotidianamente con la sua identità frammentata.
Oltre a ciò, ad emergere particolarmente nel film di Schipper è il sentimento di oppressione provato da Victoria per le sue vicende personali, che già da ragazzina la facevano sentire come «una signora anziana», e quella che all’inizio potrebbe sembrare come un’apprensione da parte dello spettatore nei confronti della protagonista per la situazione in cui si ritrova diventa presto uno stato di supporto emozionale. Il contesto presentato genererebbe, nella realtà, un rifiuto morale evidente e una sensazione di condanna, ma nella finzione cinematografica questo rifiuto muta ossimoricamente in un supporto alla ricerca anarcoide di una possibile libertà che, per Victoria, sembra essere finalmente a portata di mano.
Curiosamente, Victoria è stato inizialmente girato in sequenze da 10 minuti l’una per garantire alla casa di produzione del film un piano secondario in caso di fallimento nell’orchestrare a dovere il singolo piano sequenza pensato da Sebastian Schipper. Fortunatamente, al terzo e ultimo tentativo garantito dai produttori, l’operazione è riuscita con successo, permettendoci in tal modo di poter visionare un’opera che, se non fosse esattamente così com’è, perderebbe gran parte della sua intensità e del suo impatto, sia visivo sia emotivo.
Daniele Sacchi