“Vincent” di Tim Burton – Recensione

Vincent

…and my soul from out that shadow that lies floating on the floor

Shall be lifted – nevermore!

Citando direttamente le parole tratte da Il corvo (1845) di Edgar Allan Poe e cercando di riprendere l’atmosfera tetra dei suoi racconti, Tim Burton riesce a racchiudere abilmente, in quella che è di fatto una delle sue primissime produzioni, gran parte delle proprie idee riguardanti il medium cinematografico. Vincent (1982) si presenta infatti come un cortometraggio angosciante e sinistro, ricco di quegli elementi fortemente caratterizzanti la letteratura gotica anglosassone che si ripresenteranno poi vividamente anche nel resto della filmografia del regista statunitense: a partire dal corto Frankenweenie (1984) sino ad arrivare al suo remake sotto forma di lungometraggio (2012), senza dimenticare, tra gli altri, film come La sposa cadavere (2005) o il lavoro di produzione e di stesura del soggetto svolto per Nightmare Before Christmas (Henry Selick, 1993).

L’influenza di Edgar Allan Poe è tale da condizionare come anticipato il mood dell’opera, ma si trova a giocare un ruolo fondamentale anche nel determinarne l’intreccio. Il corto, realizzato in bianco e nero con la tecnica di animazione e di ripresa della stop motion (in italiano conosciuta come passo uno), segue infatti le gesta di un bambino di nome Vincent Malloy, al quale però piace fingere di essere Vincent Price. L’attore americano, conosciuto proprio per aver recitato in diverse pellicole dedicate ai lavori di Poe (come Il pozzo e il pendolo del 1961 e La maschera della morte rossa del 1964, entrambi di Roger Corman), svolge peraltro il ruolo di narratore nel corto, descrivendo con la sua voce le azioni e lo stato mentale del ragazzino.

Vincent

La trama, in tal senso, è semplice e diretta: nel suo delirio, condizionato dalla grande passione per i racconti di Poe, Vincent abbandona progressivamente la realtà per rifugiarsi in un mondo immaginario orribile e deprimente, creato dalla sua mente. Il cortometraggio, prodotto dalla Disney, fu a suo tempo giudicato troppo spaventoso per essere distribuito e venne ritirato dalle sale dopo solo due settimane. È facile capire perché: l’immaginario creato da Tim Burton in questa sua piccola opera è maggiormente indirizzato ad un pubblico adulto. Il tono attraverso il quale Burton decide di raccontarci il disagio interiore di Vincent è, sebbene giocoso nella sua natura, effettivamente portatore di una visione estetica profondamente macabra, nella quale il mondo fittizio, per quanto lugubre, sembra apparire come maggiormente interessante rispetto alla realtà.

Vincent si dà dunque come un vero e proprio saggio breve sulla solitudine, sull’isolamento e sulla depressione, affrontati attraverso gli occhi di un bambino. L’idea di far accompagnare queste tematiche dal continuo riferimento, simbolico e non, a Poe rende inoltre il cortometraggio non solo un buon esempio delle ottime capacità registiche ed artistiche di Tim Burton prima ancora di realizzare il suo lungometraggio d’esordio, ma ci mostra anche il tentativo da parte del regista di cercare di adeguare il proprio stile visivo alle necessità narrative dell’opera. Sebbene sia un lavoro tra i meno conosciuti di Burton, Vincent sembra in ogni caso essere uno degli esperimenti più interessanti della sua carriera: una gemma nascosta che, nell’esame complessivo della sua filmografia, non può essere ignorata.

Daniele Sacchi