Vive l’amour, viva l’amore: più che un inno, una condizione esistenziale. Il secondo lungometraggio di Tsai Ming-liang, uscito nel 1994, riprende l’essenza slow dal precedente I ribelli del dio neon (1992) in un’ulteriore riflessione sull’essere umano e sul suo essere, stavolta lasciando da parte il contesto proprio della Taiwan dei primi anni ’90 per soffermarsi su temi più universali: la solitudine e la disperata ricerca di un incontro con l’altro, di una connessione, di un contatto che vada al di là delle circostanze e delle necessità quotidiane.
La storia narrata nel film è incentrata a Taipei, dove tre persone condividono un grande appartamento a loro insaputa. Si tratta di Hsiao Kang, un venditore di ossari interpretato da Lee Kang-sheng (l’attore pupillo di Tsai Ming-liang), impadronitosi di nascosto della chiave; di May Lin (Yang Kuei-mei), l’agente immobiliare che sta cercando di venderlo; di Ah-jung (Chen Chao-jung), un venditore ambulante che dopo aver sedotto ed essere andato a letto con May Lin le ruba la chiave dell’appartamento con lo scopo di utilizzarlo segretamente come abitazione temporanea.
Le modalità attraverso le quali il regista tematizza a dovere il suo discorso sono quelle già abbozzate nel suo esordio, risemantizzate per adattarsi al nuovo contesto. Com’è tipico del suo modo di intendere il cinema, Tsai Ming-liang non lascia che in Vive l’amour sia la narrazione a prendere il sopravvento. Bensì, il tempo dedicato dal regista alla composizione delle immagini del suo film scaturisce nella definizione di un vero e proprio manifesto visivo sul concetto di solitudine. I destini dei tre protagonisti sono irrimediabilmente intrecciati ma non si scontrano mai pienamente, scalfendosi soltanto, più e più volte. L’oggetto che li lega, l’appartamento, diventa il mezzo attraverso il quale affermare pienamente la loro condizione presente nell’assenza che trasmettono.
Il regista taiwanese ricorre frequentemente all’uso del long take, soffermandosi su dettagli apparentemente insignificanti che tuttavia esaltano a dovere il punto centrale di Vive l’amour: il bisogno di entrare in contatto con la dimensione intima dell’altro. Una necessità che, secondo quanto presentato da Tsai Ming-liang, prende le mosse prima di tutto dal desiderio dell’individuo stesso, teso verso ciò che sembra essere irraggiungibile. Ah-jung e May Lin scambiano diversi momenti di amore, ma qual è il sentimento reale che provano l’un per l’altra? È forse la necessità di riempire il vuoto della solitudine? Hsiao Kang allo stesso tempo sente i due fare l’amore, giungendo persino a nascondersi sotto il loro letto, ed è qui che l’autoerotismo interviene a porre un’ulteriore distanza tra i protagonisti del film.
La quasi totale assenza di dialoghi, l’impossibilità di affermare la propria presenza in quanto essere umani, le ore trascorse a fare il nulla per il puro piacere malinconico e tautologico del fare il nulla. In una lunga sequenza, Hsiao Kang gioca per diversi minuti con un’anguria, giungendo persino a rivolgerle un bacio, mostrandosi a suo agio solamente nel mettersi in contatto con una dimensione che si dà come puramente oggettuale. Il punto più alto del suo percorso di accettazione del proprio stato mentale, nel tentativo di andare al di là dei suoi limiti, arriva quando riesce, timidamente, a baciare un addormentato Ah-jung, prima di ritirarsi come se nulla fosse accaduto, pronto per continuare la propria vuota esistenza.
Per quanto riguarda May Lin invece, il caos urbano, la pressione del lavoro, il ricorso a meri rapporti occasionali che finiscono, come nel caso di Ah-jung, a porla in una posizione di pura sottomissione, maturano in un’oppressione che non può essere quantificata se non dalla struggente sequenza in cui, di fronte alla macchina da presa, scoppia in un lunghissimo e sofferto pianto. Tsai Ming-liang realizza così con Vive l’amour uno splendido saggio sulle difficoltà dell’uomo contemporaneo, immerso nel disagio della metropoli, di stabilire una relazione duratura con l’altro. Una lezione di grande cinema, dove il medium visivo diventa spazio di pura contemplazione.
Daniele Sacchi