Upper West Side, New York. Sono gli anni ’50 e due gang si contendono il dominio delle strade del quartiere, in un clima di profonda intolleranza reciproca, segregazione e degrado urbano. Si tratta degli Sharks, un gruppo di immigrati portoricani guidati dal giovane Bernardo, e dei Jets, ragazzi bianchi figli di immigrati europei. Sono i Montecchi e i Capuleti di Laurents, Sondheim e Bernstein, autori del musical West Side Story, una risemantizzazione della tragedia shakespeariana Romeo e Giulietta proiettata all’interno del contesto newyorkese novecentesco.
Steven Spielberg, da grandissimo appassionato dell’opera, si butta a capofitto nel genere musical per la prima volta nella sua carriera, un orizzonte espressivo che ha già accarezzato in passato in diversi suoi film – pensiamo ad esempio a 1941 – Allarme a Hollywood o all’atto conclusivo di Incontri ravvicinati del terzo tipo – ma che non ha mai realmente approfondito fino in fondo sino ad oggi. Il risultato è eccezionale, con l’autore statunitense che ci regala una delle migliori prove registiche della sua carriera, un’impresa non da poco considerando l’assenza di nomi di spicco nel cast principale.
Il rischio di ripetere quanto già visto nell’egregio adattamento del ’61 di Robert Wise e Jerome Robbins era alto, ma Spielberg riesce a rendere pienamente sua l’opera. In West Side Story, si respira tutto il cinema dell’autore, dall’inizio alla fine del film. Da un certo punto di vista, nella rappresentazione diroccata e in rovina del quartiere newyorkese, sembra di scorgere i borghi devastati di Salvate il soldato Ryan, in antitesi con le atmosfere melodrammatiche tipicamente spielberghiane che permeano costantemente il film. È un gioco di incontri e di scontri, West Side Story, di tensioni irrisolte pronte ad implodere da un momento all’altro, sia stilisticamente, nel valore della sua roboante messa in scena, sia nell’esplorazione narrativa.
West Side Story è pura espressione artistica, in particolar modo nel suo voler istituire una vera e propria comunione di corpi, di sensazioni tangibili e veritiere (nonostante la “magia” del canto e del ballo nel musical cerchi solitamente di spezzare la credenza nel vero), così da mettere in contatto – e a sua volta sublimare – esistenze alla deriva, colpi di fulmine eterei e pressioni sociali irremovibili. In questo contesto emergono anche le ferite del passato, come esemplificato dal personaggio di Valentina, scritto appositamente per Rita Moreno quasi a volerle simbolicamente restituire, 60 anni più tardi, la sua identità filmica e individuale.
Nella stessa direzione si muove anche la scelta di Spielberg di ricorrere ad un cast multietnico, in grado di imprimere al meglio su schermo le istanze del racconto. E, a proposito della mancanza di star effettive, West Side Story brilla anche e soprattutto nel riuscire a far emergere i suoi talenti “secondari”, da Rachel Zegler, perfetta nella parte di Maria, a Mike Faist, temibile e fuori controllo nei panni di Riff, il leader dei Jets. Ariana DeBose, l’interprete di Anita (il ruolo originario di Rita Moreno nel film di Wise e Robbins), è a sua volta incredibilmente calata nella sua parte, un tour de force di prove canore, balli forsennati e momenti di grande intensità drammatica, specialmente nell’ultima sequenza che la vede come protagonista. Si tratta di una serie di performance di alto livello che forse avrebbero giovato maggiormente nella scelta di un lead meno ingessato rispetto ad Ansel Elgort.
Il West Side Story di Steven Spielberg è, dunque, un ricco mélange di suggestioni, coreografie dirompenti (la mano qui è di Justin Peck) e sussulti emotivi che non possono lasciare indifferenti. Insieme al talento sceneggiativo di Tony Kushner, Spielberg confeziona, con tutti i crismi del caso, un adattamento perfetto di un classico che, pur non rivoluzionando assolutamente nulla sul piano formale, restituisce un immaginario vivido e forte, di ragazzi difficili, di gabbie sociali imposte e autoimposte (perfetta l’analogia della scala, del balcone e delle grate, con il fantasma di Shakespeare che ritorna nuovamente), incarnando la quintessenza del genere musical.
Daniele Sacchi