Siamo tutti Yannick – Un’analisi del film di Quentin Dupieux

Yannick

Per gli attori, per il pubblico in sala, ma anche e soprattutto per gli spettatori sarà difficile dimenticarsi di Yannick: protagonista di quello che si può definire il primo film del periodo maturo di Mr. Oizo, nom de plume del regista francese Quentin Dupieux, da alcuni definito l’”erede postmoderno di Luis Buñuel”.

Yannick – La rivincita dello spettatore mantiene molte delle caratteristiche tipiche del suo modo di fare cinema, prima fra tutte la tendenza a disattendere le aspettative dello spettatore alterando alcune consuete scelte cinematografiche di ritmo e stile. Quindi vi ritroviamo la quasi totale assenza di una colonna musicale, l’irriverenza e la satira nei confronti della società che si manifesta attraverso l’assurdità dei dialoghi, l’incomunicabilità tra i personaggi e il gusto per un certo cinema demenziale che però lascia intravedere una profonda alienazione generale. Inoltre, Yannick resta uno dei tantissimi film di Dupieux che si sviluppa entro i 90 minuti (67 minuti per la precisione), ma scritto con cura, prodotto con un basso budget, girato in poco tempo e in cui Dupieux assomma su di sé più ruoli (regista, direttore della fotografia, montatore e sceneggiatore). Ovvero, l’ennesima pellicola che fa di questa strategia un suo marchio di fabbrica e una sua ricchezza.

Nonostante la continuità stilistica e produttiva, si osserva una forte virata nei confronti della vena demenziale (Wrong, Fumare fa tossire), splatter (Rubber, Doppia Pelle) e surreale (Incredibile ma vero, Mandibules) che permeava i film precedenti. Yannick, è infatti una commedia dolce amara che rispetta le unità aristoteliche di tempo e luogo: le vicende sono ambientate nella sala di un teatrino di periferia nella quale gli attori Paul Rivière, Sophie Denis e William Keller stanno recitando sul palco la commedia Le CoCu. Tutto ciò che avviene, per quanto fortemente meta-teatrale, è possibile che si verifichi nella realtà. Dupieux sceglie di abbandonare i suoi soliti trucchi, appunto il demenziale, lo splatter e il surreale, per raccontare in modo insolitamente lineare e con una regia minimale qualcosa che potrebbe realmente accadere.

Per la prima volta, inoltre, tradisce il suo manifesto del “no reason” (“nessun motivo”) esposto nel prologo di Rubber che vedrebbe nelle azioni immotivate dei personaggi «il più efficace elemento di stile». L’unica azione “immotivata” è proprio quella che fa da motore a tutta la storia, cioè la presa di parola di Yannick, seduto in platea tra il pubblico, che interrompe la messa in scena della tragicommedia basata sui soliti equivoci. È a partire dal quel momento che il ritmo si fa incalzante e si assiste alla maldestra e a tratti spassosa presa in ostaggio del pubblico e degli attori da parte di Yannick (grammaticalmente resa con la scelta del formato 4:3). L’intrattenimento culturale come momento di sequestro del pubblico è un tema caro a Dupieux: già in Rubber aveva inserito un vero e prioprio pubblico, una folla di persone munite di binocoli, costrette a seguire la storia della ruota assassina, sottoposte a digiuno obbligato per tutta la durata del film e, infine, avvelenate per permettere agli attori di smettere di recitare.

Se in Rubber il pubblico è inserito dal regista, utilizzando i toni dell’assurdità e dell’esagerazione, in un contesto in cui non è previsto così da denunciare come l’industria culturale (soprattutto hollywoodiana) prenda in ostaggio gli spettatori; in Yannick, invece, è proprio dal pubblico che si alzerà una voce pronta a contestare la vacuità della messa in scena. Il personaggio di Yannick si fa vero e proprio portavoce di Dupieux e di alcune sue beffarde critiche al mondo della cultura.

Yannick, come dice lui stesso, non è un ministro, ma un semplice guardiano notturno di un parcheggio, un uomo di provincia intrappolato nella sua quotidianità, ma che cerca ancora nel teatro un «balsamo per il cuore». È una persona con un passato difficile (ha perso i genitori), molto probabilmente con problemi psicologici, ma estremamente consapevole. Un protagonista accattivante per la sua semplicità, tenerezza, ma anche aggressività senza filtri: un protagonista complesso e quindi estremamente reale.

Più che la parte del vero e proprio sequestro armato e della riscrittura scenica, che predilige un tono grottesco e umoristico, è il momento che segue l’interruzione della commedia quello più carico di questioni sulle quali «filosofeggiare». Yannick, infatti, si dimostra subito abbastanza capace di riflettere, o quantomeno sollevare domande, su argomenti complicati e ampiamente dibattuti che fanno dell’industria culturale un settore peculiare rispetto ad altri. Quanto pesa la soggettività nell’interpretazione del valore di un’opera? Quali dinamiche di potere si instaurano tra palco e platea? Perché un’opera teatrale non può essere criticata come una pietanza al ristorante?

Ma la riflessione forse più interessante riguarda lo status di artista. Inconsapevole della portata più rivoluzionaria che provocatoria del suo pensiero, Yannick affermando «siamo tutti artisti se ci prendiamo il tempo» si pone perfettamente in linea con il regista teatrale Augusto Boal, secondo il quale «essere umano è essere artista ed essere artista è essere umano». Dopo aver fondato il teatro dell’oppresso (TdO), ne L’estetica dell’oppresso Boal riflette su come la cultura dominante, mediante l’industria culturale e i mezzi di comunicazione, invada i cervelli e colonizzi le masse di oppressi. Lo strumento principale è quello della castrazione estetica (a cui segue l’analfabetismo estetico) che rende i cittadini vulnerabili e li forza ad obbedire ai messaggi imperiosi dei media, senza poterci pensare su, commentarli e, infine, senza comprenderli. Per riuscire, in quanto oppressi, a liberarci dall’oppressione non si dovrà soltanto consumare cultura, ma sarà necessario iniziare a produrla concretamente. Questa è la soluzione proposta da Boal: ribellarsi a un’estetica imposta per imparare a produrre la nostra.

Ed ecco che, ponendosi a osservare da questa prospettiva il film di Dupieux, tutto può essere interpretato come una specie di sessione di TdO (1. rappresentazione di una situazione oppressiva, posta come difficoltà; 2. momento di riflessione in cui i partecipanti propongono delle azioni risolutive; 3. messa in scena da parte degli spett-attori delle soluzioni proposte). Yannick lascia che il suo disagio interiore si manifesti ed interrompe la rappresentazione spiegandone le motivazioni (1. situazione oppressiva); dopo essere stato cacciato decide di rientrare in sala e di rimettere mano all’intera commedia confrontandosi con il pubblico e facendosi aiutare dagli attori (2. riscrittura); dopo alcuni momenti di tensione tutti decidono di collaborare e la nuova commedia viene provata (3. risoluzione e raggiungimento di un nuovo equilibrio).

A questo processo partecipano tutti, sia attori sia spettatori, decostruendo e ricostruendo non solo la commedia, ma anche loro stessi per ritrovare un senso al loro agire. La pellicola si conclude con un montage che mostra una catarsi (quasi da psicodramma) testimoniata dagli occhi lucidi di Yannick dietro le quinte, dalle risate del pubblico in platea e dalla soddisfazione degli attori sul palco. Siamo tutti artisti e, questa sera, Yannick ce l’ha ricordato.

Matteo Bertassi